lunedì 26 aprile 2021

Volevo nascondermi

Dài, spendiamole due parole per Volevo nascondermi (2020), un film che, sebbene contro la propria volontà, ha avuto un destino in linea con il suo titolo: si è nascosto al pubblico, questo perché l’uscita nelle sale italiane è avvenuta a ridosso dell’esplosione pandemica del 2020 che ha spazzato via qualunque programmazione, solo nell’agosto del medesimo anno è timidamente riapparso nei cinema italiani, ma di certo, e ciò vale ovviamente per tutti gli articoli di un settore fortemente danneggiato, produttore, regista e via dicendo, avrebbero desiderato un fato più benevolo per la loro creatura. Come l’avrà presa Giorgio Diritti? Boh: a noi interessa riportare la continuità di una settima arte coerente a se stessa, il puntare su una dimensione dialettale (ricordate Il vento fa il suo giro [2005]?), territoriale (e L’uomo che verrà [2009]?), con puntate oltreconfine (o Un giorno devi andare [2013]?) si riversa anche qua tanto da spingermi ad affermare che l’operazione a livello globale mi è sembrata abbastanza onesta, quello che mi aspettavo di trovarci l’ho effettivamente riscontrato: la descrizione esplicativa di un reietto, di uno scarto sociale, in maniera sì e no episodica, leggera nei limiti di un’impostazione classica, il ritratto di un artista unico dove si spinge sulla distanza, o meglio sulla netta divisione tra il mondo “normale” e Antonio Ligabue, e Diritti ci mostra che tale distanza, tale abisso, può essere riempito da Toni solo con la pittura, mezzo di connessione interpersonale, moneta di scambio, tramite per il corteggiamento, sicché non quadri come oggetti da esibire per gonfiare l’ego artistico, non manufatti da appendere al muro di qualche parete nobile, bensì puro istinto, necessità, bisogno, urgenza di dire fregandosene dei salotti (la scena alla prima personale a Roma). Dal film scende giù un messaggio del genere, scontato? Ovvio? Non so, sicuramente non fastidioso, ed è già un traguardo quando ci si approccia ad esemplari italici.

Inevitabile poi non menzionare Elio Germano. La sua è un’interpretazione in continua tensione, corporale, animalesca. Accartocciato, intabarrato, anchilosato e al contempo tirato come una frusta. Tutte le lodi che si è preso nelle varie recensioni ed il premio al Festival di Berlino sono insindacabili. C’è però un fatto che riguarda lo scrivente: a me dell’attorialità interessa meno di zero perché sono convinto che il cinema possa esprimersi al suo meglio senza affidarsi ad una ostentata riproduzione della realtà, e quindi quando un oggetto filmico è praticamente imperniato solo ed esclusivamente sulla performance di un attore non riesco ad esaltarmi. È un’esigenza ineludibile quella di fornire una copia carbone fittizia dell’oggetto di studio? In altri termini, sarebbe possibile costruire un’opera biografica senza far confluire a mo’ di imbuto ogni cosa nel personaggio principale e di conseguenza sul suo alter ego nel set? Io penso che sia fattibile perché parliamo di una forma d’arte permeabile e malleabile, ma per far sì che nel caso in esame si verificasse, Diritti avrebbe dovuto stravolgere i consueti protocolli realizzativi e immagino che non era intenzione di nessuno abbandonare la strada vecchia per una nuova.

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