Dài,
spendiamole due parole per
Volevo nascondermi (2020), un film
che, sebbene contro la propria volontà, ha avuto un destino in linea con
il suo titolo: si è nascosto al pubblico, questo perché l’uscita
nelle sale italiane è avvenuta a ridosso dell’esplosione pandemica
del 2020 che ha spazzato via qualunque programmazione, solo
nell’agosto del medesimo anno è timidamente riapparso nei cinema
italiani, ma di certo, e ciò vale ovviamente per tutti gli articoli di
un settore fortemente danneggiato, produttore, regista e via dicendo,
avrebbero desiderato un fato più benevolo per la loro creatura. Come
l’avrà presa Giorgio Diritti? Boh: a noi interessa riportare la
continuità di una settima arte coerente a se stessa, il puntare su
una dimensione dialettale (ricordate
Il vento fa il suo giro
[2005]?), territoriale (e
L’uomo che verrà [2009]?), con
puntate oltreconfine (o
Un giorno devi andare [2013]?) si
riversa anche qua tanto da spingermi ad affermare che l’operazione
a livello globale mi è sembrata abbastanza onesta, quello che mi
aspettavo di trovarci l’ho effettivamente riscontrato: la
descrizione esplicativa di un reietto, di uno scarto sociale, in
maniera sì e no episodica, leggera nei limiti di un’impostazione
classica, il ritratto di un artista unico dove si spinge sulla
distanza, o meglio sulla netta divisione tra il mondo “normale” e
Antonio Ligabue, e Diritti ci mostra che tale distanza, tale abisso,
può essere riempito da Toni solo con la pittura, mezzo di
connessione interpersonale, moneta di scambio, tramite per il
corteggiamento, sicché non quadri come oggetti da esibire per
gonfiare l’ego artistico, non manufatti da appendere al muro di
qualche parete nobile, bensì puro istinto, necessità, bisogno,
urgenza di dire fregandosene dei salotti (la scena alla prima
personale a Roma). Dal film scende giù un messaggio del genere,
scontato? Ovvio? Non so, sicuramente non fastidioso, ed è già un
traguardo quando ci si approccia ad esemplari italici.
Inevitabile poi non
menzionare Elio Germano. La sua è un’interpretazione in continua
tensione, corporale, animalesca. Accartocciato, intabarrato,
anchilosato e al contempo tirato come una frusta. Tutte le lodi che
si è preso nelle varie recensioni ed il premio al Festival di
Berlino sono insindacabili. C’è però un fatto che riguarda lo
scrivente: a me dell’attorialità interessa meno di zero perché
sono convinto che il cinema possa esprimersi al suo meglio senza
affidarsi ad una ostentata riproduzione della realtà, e quindi
quando un oggetto filmico è praticamente imperniato solo ed
esclusivamente sulla performance di un attore non riesco ad
esaltarmi. È un’esigenza ineludibile quella di fornire una copia
carbone fittizia dell’oggetto di studio? In altri termini, sarebbe
possibile costruire un’opera biografica senza far confluire a mo’
di imbuto ogni cosa nel personaggio principale e di conseguenza sul
suo alter ego nel set? Io penso che sia fattibile perché
parliamo di una forma d’arte permeabile e malleabile, ma per far sì
che nel caso in esame si verificasse, Diritti avrebbe dovuto
stravolgere i consueti protocolli realizzativi e immagino che non
era intenzione di nessuno abbandonare la strada vecchia per una
nuova.
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