lunedì 21 ottobre 2019

Tale in the Darkness

In questi lunghi anni di ossessionanti visioni abbiamo visto sugli schermi provenienti da un po’ tutte le zone del mondo un numero smisurato di anime solitarie ritratte nella loro quotidiana mestizia, genti dell’ovest, dell’est, vicine e lontane, da ovunque ci è stata data l’opportunità di assistere ai tormenti di persone diverse da noi solo in superficie, pertanto la nostra attitudine a recepire un tale catalogo di sentimenti si è un po’ avvezza a questo genere di proposte, ne consegue che, se un regista ha in testa di incentrare il proprio film su una donna sola con tutto quello che ne può conseguire, allora il regista in questione dovrà lavorare sodo per riuscire a sorprendere degli scafati spettatori quali siamo. L’autore che oggi si porta ad esempio è Nikolay Khomeriki che avevamo lasciato alle atmosfere retrofantascientifiche di Nine Seven Seven (2006), e, per riallacciarmi subito al discorso introduttivo, con Skazka pro temnotu (2009) l’inaspettato ahinoi non fa alcuna irruzione, il racconto è imbastito in modo che sia chiaro, dal principio alla conclusione, di quanto Gelya (una brava Alisa Khazanova che guarda alla protettrice di ogni psico-frigida filmica, l’Isabelle Huppert de La pianista, 2001) risulti essere un’isola irraggiungibile da qualunque altro simile, e allora via di piccoli blocchi praticamente a se stanti dove la poliziotta pur cercando di aprirsi agli altri non riesce ad emergere dalla lunga notte in cui è prigioniera (forse fin da bambina dato il dialogo con i suoi invisibili genitori verso il finale), ma a parte il possibile lirismo che l’immagine di un’oscurità densa e opprimente può trasmettere, ciò che rimane sono una serie di scenette dal discutibile valore.

Di recente sulla nostra strada è passato un altro film proveniente dalla Grande Madre Russia dal titolo Twilight Portrait (2011) che potrebbe anche dare del tu Tale in the Darkness, medesime sono infatti le mire di illustrarci una condizione femminile alla ricerca di un qualcosa che non si riesce a trovare e parimenti non così dissimile è il contesto in cui si muove la storia (desolazione urbana e sociale, istituzioni non così ligie al dovere), il però che separa le due opere è una grossa diga che per fortuna riabilita in parte la pellicola di Khomeriki; cruciale è il taglio fornito: la Nikonova drammatizza fino alla tragedia ricercando un realismo che vede una sceneggiatura rigurgitante di fastidiose forzature, cosa che invece non accade in Skazka pro temnotu poiché al regista, diversamente dalla collega, non preme troppo una contiguità logica dei fatti, sicché il fare grottesco, slabbrato e un filo paradossale schioda l’esposizione dai letali paletti della coerenza, non ci saranno memorabili esplorazioni filosofiche sullo stato umano nel contemporaneo, ma almeno tira quell’aria a-tipica da foreign movie che sa solleticare il sesto senso cinefilo. Quindi sì, la vena scentrata di Khomeriki, quasi un canone per non pochi esemplari della recente cinematografia post-sovietica, medica la latitanza di un dispositivo atto a dare spessore al comparto “significati”, è profumo di weirdness, profumo di casa.

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