In questi lunghi anni di
ossessionanti visioni abbiamo visto sugli schermi provenienti da un
po’ tutte le zone del mondo un numero smisurato di anime solitarie
ritratte nella loro quotidiana mestizia, genti dell’ovest,
dell’est, vicine e lontane, da ovunque ci è stata data
l’opportunità di assistere ai tormenti di persone diverse da noi
solo in superficie, pertanto la nostra attitudine a recepire un tale
catalogo di sentimenti si è un po’ avvezza a questo genere di
proposte, ne consegue che, se un regista ha in testa di incentrare il
proprio film su una donna sola con tutto quello che ne può
conseguire, allora il regista in questione dovrà lavorare sodo per
riuscire a sorprendere degli scafati spettatori quali siamo. L’autore
che oggi si porta ad esempio è Nikolay Khomeriki che avevamo
lasciato alle atmosfere retrofantascientifiche di Nine Seven Seven
(2006), e, per riallacciarmi subito al discorso introduttivo, con
Skazka pro temnotu (2009) l’inaspettato ahinoi non fa alcuna
irruzione, il racconto è imbastito in modo che sia chiaro, dal
principio alla conclusione, di quanto Gelya (una brava Alisa
Khazanova che guarda alla protettrice di ogni psico-frigida filmica,
l’Isabelle Huppert de La pianista, 2001) risulti essere un’isola
irraggiungibile da qualunque altro simile, e allora via di piccoli
blocchi praticamente a se stanti dove la poliziotta pur cercando di
aprirsi agli altri non riesce ad emergere dalla lunga notte in cui è
prigioniera (forse fin da bambina dato il dialogo con i suoi
invisibili genitori verso il finale), ma a parte il possibile lirismo
che l’immagine di un’oscurità densa e opprimente può
trasmettere, ciò che rimane sono una serie di scenette dal
discutibile valore.
Di recente sulla nostra
strada è passato un altro film proveniente dalla Grande Madre Russia
dal titolo Twilight Portrait (2011) che potrebbe anche dare
del tu Tale in the Darkness, medesime sono infatti le mire di
illustrarci una condizione femminile alla ricerca di un qualcosa che
non si riesce a trovare e parimenti non così dissimile è il
contesto in cui si muove la storia (desolazione urbana e sociale,
istituzioni non così ligie al dovere), il però che separa le due
opere è una grossa diga che per fortuna riabilita in parte la
pellicola di Khomeriki; cruciale è il taglio fornito: la Nikonova
drammatizza fino alla tragedia ricercando un realismo che vede una
sceneggiatura rigurgitante di fastidiose forzature, cosa che invece
non accade in Skazka pro temnotu poiché al regista,
diversamente dalla collega, non preme troppo una contiguità logica
dei fatti, sicché il fare grottesco, slabbrato e un filo paradossale
schioda l’esposizione dai letali paletti della coerenza, non ci
saranno memorabili esplorazioni filosofiche sullo stato umano nel
contemporaneo, ma almeno tira quell’aria a-tipica da foreign
movie che sa solleticare il sesto senso cinefilo. Quindi sì, la
vena scentrata di Khomeriki, quasi un canone per non pochi esemplari
della recente cinematografia post-sovietica, medica la latitanza di
un dispositivo atto a dare spessore al comparto “significati”, è
profumo di weirdness, profumo di casa.
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