Così così questo
lungometraggio cambogiano con importanti quote francesi alla
produzione, e prima di inoltrarmi nel solito commento striminzito mi
e vi pongo un quesito che al di là di ogni possibile difetto sta
alla radice del mio scarso apprezzamento: può un film che è insindacabilmente orientale per via del set, dei temi trattati e
degli attori coinvolti non piacere perché non abbastanza orientale?
Il regista Davy Chou faticherebbe non poco a comprendere un tale
interrogativo, mi metto nei suoi panni di giovane filmmaker e scorgo
un debuttante che ha voluto raccontare uno spaccato adolescenziale
all’interno di un definito contesto socio-culturale problematico,
però, se lui si mettesse nei miei panni, ovvero quelli di uno
spettatore occidentale che ha memoria ed esperienza di un cinema
proveniente dall’Asia, e in particolare dal sud-est asiatico, credo
sarebbe d’accordo nell’affermare che Diamond Island (2016)
manca di quella stordente alterità che in passato ci ha letteralmente
ribaltato dalla poltroncina della sala. Al sottoscritto, qui, tutto è
sembrato troppo pulitino, una messa in scena orizzontale di drammi
non particolarmente ficcanti, un’intelaiatura narrativa che si
muove su binari prevedibili e una squadra di attori in erba che fa
quel che può alle prese con dei ruoli monodimensionali. Se si è
benevoli si potrebbe considerare la pellicola come un lavoro sincero
perché si intuisce che è stata pensata, prodotta e girata... in
buona fede, ma trovare dell’altro oltre la tiepida simpatia che
suscita la vedo difficile.
E dire che di argomenti
sul tavolo Chou ne mette parecchi: la condizione dei poveri
lavoratori che si spostano dalle campagne della Cambogia verso la
capitale per guadagnare qualcosa in più da mandare a casa, Phnom
Penh e lo squilibrio tipico delle megalopoli che si trovano a quelle
latitudini con i grandi contrasti irrisolti tra progresso tecnologico
e tradizione (l’isola del titolo è un sito ultra moderno in
costruzione collegato alla città da un ponte), le relazioni amorose
tra i ragazzi del luogo (c’è un focus sul giorno di San Valentino
che ha più o meno la stessa nostra valenza con però maggiore
accento sulla componente sessuale), i legami di una famiglia
interconnessi con le strade del futuro (gli Stati Uniti come terra
promessa) e messi a dura prova da un evento luttuoso. È innegabile
che tali questioni siano presenti in Diamond Island ma è
altrettanto innegabile che sono tutti affrontati all’acqua di rose,
il risultato è che questa è una visione che non incide, passa,
scorre e la si dimenticherà molto presto. Da una premessa del
genere, e in relazione al fatto che voglio sfruttare al meglio il mio
tempo libero, non darei un’altra chance a Davy Chou.
Ah: caruccia la scena
della neve.
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