Lui e lei a
Calcutta in un appartamento disordinato che si affaccia su un vicolo,
un nido, un presidio dove poter tornare dopo un giorno di lavoro, uno
spazio che però non può essere condiviso. Il primo film di Aditya
Vikram Sengupta esplora questa faglia che separa la coppia, e lo fa
con grande autorialità tanto che Asha Jaoar Majhe (2014), per
modalità (assenza di dialoghi) e tempistiche (decisamente slow),
potrebbe provenire da qualche Paese ancora più a oriente, come la
Thailandia o Taiwan. Nell’illustrarci la giornata tipo del duo, il
regista indiano si focalizza su quei piccoli gesti che formano
l’ordinaria quotidianità, il quadro che ne risulta ha una specie
di struttura speculare perché, sebbene le cose non siano troppo
esplicite, c’è una corrispondenza tra le azioni del ragazzo con
quelle della ragazza, delle rime visive che riguardano la
preparazione del pasto, il riposo a letto, il chiamarsi sul cellulare
a mo’ di sveglia, il riporre qualche moneta nel salvadanaio, tutte
queste immagini ricorsive contribuiscono a dare musicalità ad
un’opera che per lo spettatore con poca pazienza potrebbe apparire
ferma, bloccata nella micro-situazione di cui si occupa. La premessa
che sta dietro alla storia narrata e che viene esplicitata
nell’introduzione su sfondo nero, concerne una crisi economica che
affligge l’India, una recessione che colpisce maggiormente le
professioni umili, è un’informazione lanciata lì, non
approfondita, che però aiuta forse ad agevolare l’accesso
nell’asciutto racconto, se gli innamorati non si incontrano nemmeno
nella loro casa è perché qualcosa di più forte li obbliga a stare
lontani, un qualcosa molto
semplice e universale: la necessità di tirare avanti facendo dei
sacrifici.
L’idea
di cinema che ha Sengupta è votata ad una massiccia estetizzazione,
certo non si sconfina nel surreale sfrenato di Jonaki
(2018), anche se, va detto, la sequenza finale trova residenza in una
zona-oltre che non appartiene alla realtà, però l’impressione è
che vi sia una cura meticolosa dedicata ad ogni singola scena (si
veda come esempio l’attenzione riposta sul cibo), l’obiettivo
evidente è di conferire eleganza e raffinatezza al girato, traguardo
che, grazie ai numerosi carrelli laterali e ai morbidi spostamenti
della mdp, credo sia stato raggiunto. Annotati tali riscontri bisogna
capire che tipologia di settima arte si vuole vedere perché non
tutti gli spettatori potrebbero andare in brodo di giuggiole al
cospetto di un apparato eloquentemente finzionale. È anche vero che
Labour of Love, pur
proponendosi in una veste d’artificio, contempla un impianto
realistico che lascia filtrare dei raggi onirici, e probabilmente la
bravura che va riconosciuta a Sengupta sta proprio qua, ossia nella
capacità di aver reso la concretezza di due esistenze simili a
milioni di altre che sgomitano nel caos della megalopoli, sottilmente
speciale, finemente magica, nonché dotata di una tenue speranza per
i due protagonisti: di potersi sfiorare, anche se solo in sogno, poco
prima che il sole sorga nuovamente.
Edit di 48 ore dopo: devo ammettere di essere stato un po’ freddo
nei confronti del film il quale, a distanza di due giorni dalla
visione, è fermentato e cresciuto non poco dentro di me. Penso che
se si riesce a scendere a patti con la patina formale la poetica
intimità che fuoriesce dagli umidi crocicchi di Calcutta valga il
cosiddetto prezzo del biglietto.
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