giovedì 2 novembre 2023

Labour of Love

Lui e lei a Calcutta in un appartamento disordinato che si affaccia su un vicolo, un nido, un presidio dove poter tornare dopo un giorno di lavoro, uno spazio che però non può essere condiviso. Il primo film di Aditya Vikram Sengupta esplora questa faglia che separa la coppia, e lo fa con grande autorialità tanto che Asha Jaoar Majhe (2014), per modalità (assenza di dialoghi) e tempistiche (decisamente slow), potrebbe provenire da qualche Paese ancora più a oriente, come la Thailandia o Taiwan. Nell’illustrarci la giornata tipo del duo, il regista indiano si focalizza su quei piccoli gesti che formano l’ordinaria quotidianità, il quadro che ne risulta ha una specie di struttura speculare perché, sebbene le cose non siano troppo esplicite, c’è una corrispondenza tra le azioni del ragazzo con quelle della ragazza, delle rime visive che riguardano la preparazione del pasto, il riposo a letto, il chiamarsi sul cellulare a mo’ di sveglia, il riporre qualche moneta nel salvadanaio, tutte queste immagini ricorsive contribuiscono a dare musicalità ad un’opera che per lo spettatore con poca pazienza potrebbe apparire ferma, bloccata nella micro-situazione di cui si occupa. La premessa che sta dietro alla storia narrata e che viene esplicitata nell’introduzione su sfondo nero, concerne una crisi economica che affligge l’India, una recessione che colpisce maggiormente le professioni umili, è un’informazione lanciata lì, non approfondita, che però aiuta forse ad agevolare l’accesso nell’asciutto racconto, se gli innamorati non si incontrano nemmeno nella loro casa è perché qualcosa di più forte li obbliga a stare lontani, un qualcosa molto semplice e universale: la necessità di tirare avanti facendo dei sacrifici.

L’idea di cinema che ha Sengupta è votata ad una massiccia estetizzazione, certo non si sconfina nel surreale sfrenato di Jonaki (2018), anche se, va detto, la sequenza finale trova residenza in una zona-oltre che non appartiene alla realtà, però l’impressione è che vi sia una cura meticolosa dedicata ad ogni singola scena (si veda come esempio l’attenzione riposta sul cibo), l’obiettivo evidente è di conferire eleganza e raffinatezza al girato, traguardo che, grazie ai numerosi carrelli laterali e ai morbidi spostamenti della mdp, credo sia stato raggiunto. Annotati tali riscontri bisogna capire che tipologia di settima arte si vuole vedere perché non tutti gli spettatori potrebbero andare in brodo di giuggiole al cospetto di un apparato eloquentemente finzionale. È anche vero che Labour of Love, pur proponendosi in una veste d’artificio, contempla un impianto realistico che lascia filtrare dei raggi onirici, e probabilmente la bravura che va riconosciuta a Sengupta sta proprio qua, ossia nella capacità di aver reso la concretezza di due esistenze simili a milioni di altre che sgomitano nel caos della megalopoli, sottilmente speciale, finemente magica, nonché dotata di una tenue speranza per i due protagonisti: di potersi sfiorare, anche se solo in sogno, poco prima che il sole sorga nuovamente.

Edit di 48 ore dopo: devo ammettere di essere stato un po’ freddo nei confronti del film il quale, a distanza di due giorni dalla visione, è fermentato e cresciuto non poco dentro di me. Penso che se si riesce a scendere a patti con la patina formale la poetica intimità che fuoriesce dagli umidi crocicchi di Calcutta valga il cosiddetto prezzo del biglietto.

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