lunedì 20 novembre 2023

Promontorio

La luce si affievolisce e io penso alla merda, a tutta quella che, dal momento in cui veniamo al mondo, espelliamo grazie al nostro sfintere. Dopo infiniti peripli nelle tubature, montagne russe, capriole e giri della morte, dove finisce? Dove sono finiti tutti gli escrementi che fin da quando ero un bimbo mamma e papà ripiegavano nel pannolino e che poi, crescendo, sono stati risucchiati dai gorghi dei cessi sui quali mi sono seduto? Credo che, semplicemente, siano finiti in mare, o al massimo in un fiume che poi, nel prolungamento del viaggio, tra strette anse e cascatelle, ha portato le mie feci verso la libertà acquea. Ora, tenendo conto che io ho sempre vissuto nella medesima città e che in trentasei anni di vita avrò defecato almeno tredicimila volte, penso al fatto che c’è molto, ma davvero molto di me, nello specchio d’acqua che ogni mattina vedo affacciandomi alla finestra. Certo, delle deiezioni di quando avevo dieci o venti anni non sarà più rimasto granché, tutto si sarà sfibrato, sfilacciato, dissolto nelle profondità marine oppure inghiottito dai golosi cefali (e quindi immesso di nuovo in mare attraverso le loro cacchine filamentose), tuttavia mi piace immaginare che ogni stronzo o stronzetto che ha abbandonato il mio corpo, una volta riunitosi nei fondali con i propri simili, sia stato capace di riagglomerarsi perché distrutto dalla nostalgia dell’organicità, e che io abbia cagato a Napoli, a Tokyo o a Barcellona, poco importa, la mia merda è riuscita a viaggiare dentro gli oceani per compattarsi proprio lì vicino dove vivo, questo è quello che penso mentre il buio si allunga nella mia camera e fuori le donne anziane con le vene varicose ciondolano di qua e di là tenendo in mano borse della spesa di plastica tese fino al limite dai loro pesanti contenuti.

A fianco del mio appartamento vive una ragazza madre che si chiama Aisha, è eritrea, etiope o somala, le vorrei chiedere se da giovane nel suo Paese è stata infibulata e se sì come ha fatto a rimanere incinta e poi a partorire, ma finora non sono riuscito ancora a chiederle nulla perché credo di amarla e l’idea di tentare un qualsiasi approccio mi fa sentire un totale imbecille, l’unica occasione in cui è avvenuto una specie di contatto è stato quando durante un’assemblea di condominio Aisha ha preso parola davanti a tutti dicendo che da un po’ di tempo è molto spaventata perché è capitato diverse volte che qualcuno le abbia suonato al campanello nel cuore della notte e che guardando dallo spioncino abbia visto una figura maschile incappucciata ferma sul pianerottolo, e dicendo queste cose i nostri sguardi si sono per un attimo incrociati e io le ho fatto un mezzo sorriso ma non sono riuscito a vedere se sia stato corrisposto, nel frattempo, di sera, prima di addormentarmi, appoggio sempre l’orecchio alla parete cercando di captare qualcosa, una voce, la tv, l’acqua della doccia che scorre. La sua bimba ha appiccicato lungo le scale una serie di stickers a forma di unicorno che si illuminano al buio, quando sono ubriaco marcio e ritorno a casa barcollando quegli adesivi sono le mie stelle e la mia bussola, senza di loro, senza di lei, sarei perso.

L’altro giorno sono stato da una prostituta cinese, ho trovato il numero su un sito di annunci, ho chiamato e mi ha risposto una voce delicata che mi ha fornito l’indirizzo preciso dell’abitazione, così mi sono presentato puntuale all’appuntamento con in bocca un gomma alla menta extra forte, la donna che mi ha aperto la porta avrà avuto almeno cinquant’anni, piccola, con la frangetta, tutta nervi e finti sorrisi, era la mamasan che prendendomi per mano mi ha portato nel cesso facendomi capire che avrei dovuto aspettare lì fino a che in camera il cliente prima di me non avesse finito. Certo che sentivo un vuoto, e guardando quelle piastrelle che mi ricordavano il bagno di mia nonna il vuoto era diventato una voragine, una parte di me voleva andare via, l’altra, appena la mamasan è riapparsa sulla soglia, mi ha spinto a percorrere il corridoio che terminava nella camera da letto, dentro c’era una ragazza con addosso della lingerie dozzinale, la mamasan le ha detto qualcosa in cinese (forse che desideravo fare i preliminari scoperti) e poi è uscita, la ragazza allora in un misto tra italiano e inglese mi ha detto di essere coreana, sentendo ciò le ho risposto che anni fa ero stato a Seul, non credo abbia capito come io non ho capito perché doveva vendersi per ciò che non era, e a questa cosa ci ho pensato ancora dopo una volta uscito da lì con cinquanta euro in meno nel portafoglio: che differenza avrebbe fatto se fosse stata indonesiana, mongola o thailandese? Poi ho pensato che anche a Seul, nella zona di Cheonho, una specie di risposta orientale alle vetrine olandesi, ero stato con una prostituta che mi aveva detto di essere cinese. Questo vuoto, questa faglia che ci portiamo nello stomaco, non se ne va via con una banale eiaculazione, è una roba che ti agguanta l’anima e giorno dopo giorno ti divora da dentro. Kafka aveva capito tutto, noi non abbiamo capito niente.

Io non ho molti ricordi di infanzia, ma ne ho uno apparentemente anodino che però è come un quadro appeso nella parete della mia memoria: è estate, io sono in macchina con i miei genitori, dalla radio viene fuori La mia banda suona il rock di Fossati, non capisco niente di quelle parole ma il ritmo che la fa vibrare mi permette di sentire una tremenda nostalgia verso il futuro perché poi, vent’anni dopo, riascoltando quella canzone proverò un senso di malinconia nei riguardi del passato, ma prima vedo mio padre che scende giù dalla salita con una borsa frigo rigida, dentro deve esserci qualche bibita, forse una birra e l’insalata di riso più qualche panino con il prosciutto nel caso avessimo ancora fame, sulla spalla sinistra ha imbracciato l’ombrellone riposto nella sua federa, mamma mi tiene per mano, ha dei sandali da cui spuntano le sue unghie smaltate di rosso, però lo smalto è un po’ sbeccato e ora che ripenso a questo piccolo dettaglio sono pervaso da una specie di tenerezza, mi sembra che l’irregolarità dello smalto sia il simbolo della nostra posizione sociale, e prima ancora, prima di partire per il mare, sono nel letto della mia cameretta che di notte mi appare immensa, la sera ho visto una trasmissione su Italia 1 che parlava di rapimenti alieni, mi immagino cosa potrebbe accadere se dalla porta sbucasse una mano fosforescente e io, immobilizzato dalla paura, venissi trascinato via e portato a bordo del disco volante per essere usato come cavia nei loro esperimenti, dopo, dopo il mare, ritorniamo indietro e io ho un sonno che quasi mi sento morire, adesso la radio passa Oro di Mango o Con il nastro rosa di Battisti, non ce la faccio più, chiudo gli occhi e li riapro davanti ad uno schermo dove una donna è attorniata da una decina di uomini che si masturbano in cerchio.

Non ho dubbi nel dire che la mia parola preferita in inglese è coping, e si tratta di una parola che avevo completamente rimosso fino a che, durante una convention nazionale dell’azienda per cui lavoro, è di colpo tornata a galla e lo ha fatto per merito di una sedia a rotelle, o meglio di una persona seduta su questa sedia, ed è andata così: sul palco il presidente stava parlando di fatturato, di crescita, di investimenti e chissà di che altro, tutto ciò fino a quando verso la fine del suo intervento ha chiesto ad un nome e cognome che non sono riuscito a captare di raggiungerlo sul palco, a quel punto alla mie spalle si è fatto largo un cigolio che mi ha spinto a girarmi per vedere avanzare sulla moquette una carrozzina condotta da un giovane dal sorriso emozionato, e lì sopra uno scheletro con un po’ di pelle attaccata, un uomo avvolto in un montone oversize quando nella sala ci saranno stati almeno venti gradi, giunto dinnanzi al presidente l’ex commercialista, perché di questo si trattava: un professionista che all’epoca aveva dato una grossa mano per l’apertura della società, ha ricevuto il microfono e con una fatica che io e tutti gli altri siamo riusciti a percepire come se fosse la nostra, ha diffuso la sua voce a singhiozzo in tutta la platea, e ciò che è uscito dall’impianto di filodiffusione è stata una specie di carezza perché l’uomo ha detto con grande trasparenza che era molto contento di essere lì con noi e che ci voleva davvero bene. Uscendo ho ripensato al fatto che con ogni probabilità non avrei mai più rivisto quel signore e che per ragioni che non hanno nulla a che fare con me o con i miei colleghi, anche io, nello spazio di quel contatto sfuggente, ho sentito di volergli bene.

L’oscurità è ormai una campana di vetro che mi imprigiona, ho deciso che sarebbe stato questa sera perché ho rimandato per troppe sere, praticamente tutte quelle della mia vita fino ad oggi. Così mi sono guardato allo specchio e nel riflesso ho rivisto mio padre, poi ho messo una felpa col cappuccio, ho preso le chiavi della macchina e ho lasciato quelle di casa appese al chiodino vicino all’attaccapanni. Uscendo ho schiacciato il campanello di Aisha, quella breve scossa elettrica ha risuonato nelle scale come un raggio laser alieno, ho giusto sentito i suoi passi incalzinati arrivare fino alla porta e poi sono andato via. La città ancora intrisa di buio è così come l’ho sempre vista: una frontiera sopravvissuta ad un attacco nucleare, non c’è nient’altro intorno se non macerie e detriti dove si nascondono relitti umani che si iniettano in corpo le peggiori droghe o che succhiano i peggiori cazzi in cambio di qualche spicciolo, vorrei essere cieco, vorrei poter volare via ma in mancanza di ali, e quindi del cielo, dovrò accontentarmi dell’abisso. Sono arrivato lì dove una macchia verde inizia a digradare dolcemente verso il mare, mi sono spogliato di tutto e l’erba ha cominciato a condurmi in basso fino a che la sua consistenza filacciosa ha lasciato il posto alla rotondità dei sassolini che da asciutti si sono fatti bagnati, così come sono bagnate le mie caviglie, le mie tibie, adesso anche i miei testicoli che si ritraggono per il freddo. Ho quindi proseguito il mio cammino e anche quando l’acqua mi ha sfiorato le narici fino a farmi scomparire, ho scoperto che potevo respirare sotto la superficie e che la gravità proseguiva il suo lavorio fisico anche sul fondo del mare, allora ho camminato lungo un sentiero illuminato da pesci lanterna, le mie stelle, la mia bussola, fino a giungere su uno scoglio piatto dove mi sono raccolto in posizione fetale, dopo un periodo che potrebbe essere di un giorno come di cento anni, ho sentito un abbraccio che mi ha avvolto da dietro, non ci ho messo molto a capire che il mio me-merda era finalmente tornato al suo corpo originale, e questo mio fantoccio escrementizio avvicinandosi all’orecchio mi ha detto con fare materno che adesso non dovevo più preoccuparmi di nulla, che non c’era più niente da cercare o da scrivere, che adesso c’era solo da aspettare la Fine.

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