Dakar (2020) è un cortometraggio che non ha nessuna qualità capace di farmi sobbalzare sulla sedia, è un lavoro che ha le sue caratteristiche ben definite alle quali riconosco una rispettabile professionalità, ma che resta congelato nella sterminata galassia delle produzioncine festivaliere, nello specifico fu il Thessaloniki International Film Festival. Stelios Moraitidis, il suo regista classe ’90 il cui film precedente, Deconstructing Interruption (2016), dovrebbe essere una sorta di backstage dell’Interruption (2015) di Yorgos Zois, si gioca la carta epistolare utilizzando il cinema come contenitore di emozioni impresse su una missiva che materialmente non esiste più se non nel nastro di una vecchia cassetta, il punto, però, sta per chi scrive proprio nel concetto di “contenitore”, l’impressione è che la settima arte qui sia esclusivamente usata come un recipiente: giro una storia su un amore passato finanche perduto e lo riverso in uno spazio filmico di dieci minuti scarsi, bon. Mi è mancata una valida tessitura tra la sezione chiamiamola narrata e la scelta delle immagini urbane, di questo vagare per Atene da parte del protagonista. Non è una roba facilissima da spiegare quella che voglio esprimere, di opere che hanno un’impostazione similare a Dakar ne sono passate parecchie da queste parti, e alcune, di cui non farò i nomi per non ripetermi ma l’origine, l’archè, rimane e rimarrà per sempre Chris Marker, avevano una concertazione, un senso di insieme, di meraviglia, di energia che Moraitidis non è riuscito a imprimere. Io ci ho visto solo la superficie, ovvero un vecchio che vive il presente nel rimpianto del passato mentre intorno a lui il mondo continua a scorrere incurante, ed è, appunto, una superficie che pare anche un tutto, ma non in un’ottica totalizzante, un tutto di ordinaria levatura.
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