È Below Sea Level (2008) a portarci direttamente dentro Sacro GRA
(2013), e confrontando i due lavori possiamo rintracciare somiglianze
e correlate differenze. Nelle prime vi rientra un approccio similare
che è quello di portare il documentario su un piano
leggermente più finzionale, come a cercare le eventuali
finanche possibili finestre di fiction che si aprono nella realtà
e in cui Rosi si incunea per operare sottotraccia modellando le
creature che popolano questi mondi al confine. Tale ibridazione
documentaristica genera una forma narrativa che il cinema italiano ha
impiegato spesso negli ultimi tempi rivelandosi una delle poche
strade, se non l’unica, capace di sfornare prodotti perlomeno
accettabili. Appurata la sovrapponibilità dell’impianto
concettuale, se continuiamo a comparare il film del 2008 con il
lavoro successivo penso sia condivisibile marcare uno scarto in favore di
quello ambientato negli Stati Uniti. È forse una questione che
va a collocarsi nell’annosa faccenda della soggettività, chi
scrive è rimasto decisamente più colpito/affascinato
dai ritratti dei senzatetto americani piuttosto che dalla variegata
umanità di Sacro GRA perché nella pellicola
romana è come se quella purezza, quella verginità di
sguardo (già intaccata in Below Sea Level ma
riacciuffata successivamente dalla frontalità del reale senza
artifici de El Sicario, Room 164, 2010) sfibrasse e venisse
sostituita con una veduta farlocca, impostata, furba e patinata da
un’estetizzazione improducente.
Generalizzando, la
coralità costruita da Rosi ha poco appeal, questa carrellata
di borgatari usciti da una penna simile (ma decisamente più
edulcorata) a quella di Walter Siti è palese che non abbia
nulla di interessante da esprimere poiché è la loro
stessa vita periferica a non essere interessante, ma il colpevole
principale è Rosi stesso che invece di proporre un esemplare
di cinema spaccia un cadavere avvolto in un sudario finto-innovativo,
difatti l’impostazione teorica di Sacro GRA avrà
anche potuto ammaliare la giuria di Venezia ’13 che probabilmente
aveva visto una risposta d’essai a La grande bellezza
(2013), e taccio sullo scontro politico-produttivo che si cela dietro
(Medusa vs. Rai Cinema), tuttavia basta un occhio appena appena
conscio della realtà cinematografica europea per sapere che
film del genere venivano girati già vent’anni prima da gente
come Ulrich Seidl (vedi Animal Love, 1996). Nell’aria di
plastica che spira in Sacro GRA sono incapace di ritrovarmi,
da una visione così bidimensionale impegnata più a
specchiarsi che a rispecchiare davvero la condizione esistenziale sul
Grande Raccordo Anulare e che non aggiunge nulla al discorso sul
cinema contemporaneo, non si è nemmeno sfiorati, tanto che
l’indifferenza è il sentimento che alla fine prevale.
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