giovedì 13 aprile 2017

Sacro GRA

È Below Sea Level (2008) a portarci direttamente dentro Sacro GRA (2013), e confrontando i due lavori possiamo rintracciare somiglianze e correlate differenze. Nelle prime vi rientra un approccio similare che è quello di portare il documentario su un piano leggermente più finzionale, come a cercare le eventuali finanche possibili finestre di fiction che si aprono nella realtà e in cui Rosi si incunea per operare sottotraccia modellando le creature che popolano questi mondi al confine. Tale ibridazione documentaristica genera una forma narrativa che il cinema italiano ha impiegato spesso negli ultimi tempi rivelandosi una delle poche strade, se non l’unica, capace di sfornare prodotti perlomeno accettabili. Appurata la sovrapponibilità dell’impianto concettuale, se continuiamo a comparare il film del 2008 con il lavoro successivo penso sia condivisibile marcare uno scarto in favore di quello ambientato negli Stati Uniti. È forse una questione che va a collocarsi nell’annosa faccenda della soggettività, chi scrive è rimasto decisamente più colpito/affascinato dai ritratti dei senzatetto americani piuttosto che dalla variegata umanità di Sacro GRA perché nella pellicola romana è come se quella purezza, quella verginità di sguardo (già intaccata in Below Sea Level ma riacciuffata successivamente dalla frontalità del reale senza artifici de El Sicario, Room 164, 2010) sfibrasse e venisse sostituita con una veduta farlocca, impostata, furba e patinata da un’estetizzazione improducente.

Generalizzando, la coralità costruita da Rosi ha poco appeal, questa carrellata di borgatari usciti da una penna simile (ma decisamente più edulcorata) a quella di Walter Siti è palese che non abbia nulla di interessante da esprimere poiché è la loro stessa vita periferica a non essere interessante, ma il colpevole principale è Rosi stesso che invece di proporre un esemplare di cinema spaccia un cadavere avvolto in un sudario finto-innovativo, difatti l’impostazione teorica di Sacro GRA avrà anche potuto ammaliare la giuria di Venezia ’13 che probabilmente aveva visto una risposta d’essai a La grande bellezza (2013), e taccio sullo scontro politico-produttivo che si cela dietro (Medusa vs. Rai Cinema), tuttavia basta un occhio appena appena conscio della realtà cinematografica europea per sapere che film del genere venivano girati già vent’anni prima da gente come Ulrich Seidl (vedi Animal Love, 1996). Nell’aria di plastica che spira in Sacro GRA sono incapace di ritrovarmi, da una visione così bidimensionale impegnata più a specchiarsi che a rispecchiare davvero la condizione esistenziale sul Grande Raccordo Anulare e che non aggiunge nulla al discorso sul cinema contemporaneo, non si è nemmeno sfiorati, tanto che l’indifferenza è il sentimento che alla fine prevale.

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