mercoledì 19 aprile 2017

Aloys

Giusto che il protagonista, un memorabile Georg Friedrich habitué dei set hanekiani, dia il titolo al film: Aloys è il punto centrale della storia che però non è un punto fermo nonostante le sue premesse così ristagnanti nella mestizia, c’è un’evoluzione nella scrittura ruolistica del personaggio così come si registra una mutazione nel campo categoriale proprio dell’opera. Diciamo quindi che il nesso tra il soggetto principale e la pellicola stessa segue questa tendenza trasformativa, infatti l’inizio pone la questione su una traiettoria da hard boiled in chiave austriaca: toni stinti, freddezza diffusa, geometrie asettiche, e di conseguenza anche le informazioni fornite su Aloys lo tratteggiano come uno dei tanti uomini soli che il cinema occidentale (e non solo) ha raccontato negli anni, niente è eclatante nei vari addendi che fanno la somma di tale solitudine, tuttavia la variante elvetica del debuttante Tobias Nölle non urta e un po’ di fluidi empatici oltrepassano lo schermo; poi Aloys (2016) cambia e con lui anche Aloys: Nölle mette da parte la possibile inusuale detection dove l’investigatore diventa l’investigato per aprire la sua opera ad un raggio umanista che si concentra esclusivamente sulle persone, le uniche due, e sulla distanza che le separa, da qui in avanti il lungometraggio si muove in una zona diversa da quanto aveva fatto intuire per penetrare in altre aree cinematografiche (tipo quelle esteuropee di Pálfi e Sigarev) dove il vedere, il nostro vedere, viene scombussolato dal fiorire di piani ulteriori a quello grigio e piatto dell’infelicità, e ad una rinascita filmica corrisponde anche una resurrezione emotiva del povero detective.

Ci sono dei validi momenti perché Aloys è un film di finzione confezionato molto bene in cui il regista e tutto il team produttivo, dal comparto fotografico a quello sonoro, sfoggiano una professionalità che non fa di certo pensare ad un esordio, sul fronte sceneggiaturiale è forse opinabile il succo della vicenda che non può fregiarsi di una significazione innovativa, di autori che hanno tentato di riavvicinare il cuore degli uomini soli ce ne sono così tanti che il tema è ormai inflazionato, come sempre però a soccorso del coraggioso di turno ecco che i metodi utilizzati nella trattazione dell’argomento riescono a mitigare il tasso d’abuso, ed è esattamente grazie all’estro impiegato da Nölle che qualcuno potrà ricordare maggiormente la portata estetica rispetto a quella semantica, e quei buoni momenti sopraccitati si riconducono all’intrigante idea di strutturare il rapporto tra Aloys e Vera via telefono e di dare forma per immagini all’idealizzazzione sentimentale tra un uomo e una donna che si amano senza conoscersi. La progressione di un legame alquanto strambo su cui aleggia sempre il fantasma della malinconia (il papà) ha una discreta forza ostensiva che per mezzo di lacerazioni narrative, ribaltamenti spaziali ed evocazioni mentali trasporta il tutto ad un crescendo conclusivo che si guarda con partecipazione, ed anche se per sentirci leggeri e inarrivabili dobbiamo affrontare ben altro cinema, Aloys e il suo mondo uggioso recapitano con stile una morale allo spettatore: solo quel lucore, quel barlume, quello scintillio situato nell’altro può farci sentire davvero vivi.

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