venerdì 7 aprile 2017

Passeri

Il mite Ari si sposta da Reykjavik, dove viveva con la madre, per traslocare nel nord dell’Islanda, dove invece si trova il padre. L’ambientamento non sarà facile.

Quattro anni dopo Volcano (2011) Rúnar Rúnarsson firma il suo secondo lungometraggio, Þrestir, (2015) ed è subito una piccola debacle. Nel menù offerto dall’islandese vi sono portate dal gusto ampiamente già visto, conosciuto, assaporato; va detto che il cinema di questo ragazzotto puntando il mirino sui legami personali e sui soggetti principali di tali intrecci, con il film precedente e gli altri due cortometraggi pre-debutto aveva dato prova di sapersi orientare in modo accettabile nell’arte narrativa, ma con Passeri il passo indietro è manifesto poiché Rúnarsson non riesce a rinvigorire un racconto che si basa su presupposti molto ma molto canonici: l’adolescenza difficile induce a uno sbadiglio, il rapporto col padre a due sbadigli, il ritratto dei coetanei con il bulletto di turno è da narcolessia. Il punto è che l’amalgama dei suddetti ingredienti si traduce in un quadro scialbo punteggiato da situazioni fin troppo prevedibili finanche immotivate, si veda l’improvvisa morte della nonna che non ha particolari ripercussioni sulla storia o la gratuita parentesi erotica con la compagna del padre, una scena davvero ingiustificata. È un po’ sempre il solito discorso, più ci troviamo a guardare un cinema che si affida esclusivamente alla sceneggiatura, più il pericolo di prestare il fianco ad obiezioni logiche si alza, e se le obiezioni sono legittime allora il castello di carte si sfascia. I campi lunghi paesaggistici sono belli, ma fare un film è un’altra faccenda.

Purtroppo per Rúnarsson al sottoscritto non è pesato soltanto il pallore che ammanta l’opera, c’è una questione ulteriore che quasi infastidisce e che non può essere taciuta. Infatti tutto l’intreccio tramico alla fine si risolve in una scena madre che è la copia sputata di quella rintracciabile in Two Birds (2008), c’è lo stesso attore adesso cresciuto (si chiama Atli Oskar Fjalarsson e inspiegabilmente nel suo scarno curriculum c’è una voce che lo vede nella troupe di Interstellar [2014]… mah!), e c’è la stessa identica situazione con Ari suo malgrado voyeur di Lára in botta piena posseduta da due tizi. Si può capire l’autocitazione, si può accettare il fatto che molti registi nella loro carriera abbiano ampliato un proprio cortometraggio trasformandolo in un lungo, tuttavia io non comprendo né accetto perché mi è sembrato di registrare più che altro una preoccupante assenza di idee mascherata dal maldestro tentativo di creare delle premesse ad un lavoro compiuto sette anni prima. Come si può pensare di procedere in avanti proponendo la rimasticatura di un piatto ormai scaduto? E si badi bene che Two Birds non è uno short movie del tutto sconosciuto eh, oltre alla visibilità on line va ricordata la sua presentazione a Cannes ed un peregrinare in giro per il mondo in molti festival dedicati al genere, quindi siamo lontani da un oggetto di nicchia sconosciuto al pubblico, e tutto ciò non può che comportare una forte svalutazione di Þrestir dove oltre all’infelice riproposizione di cui sopra, anche il resto non funziona granché.

2 commenti:

  1. Non l'ho visto, ma Two Birds sì, come tutto il resto di Rúnarsson. Quando ho visto la locandina ho pensato proprio la stessa cosa. Visionerò per completezza, magari sperando di non perder tempo.

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  2. Io ti dico solo che ho trovato irritante il forzato collegamento con il corto precedente e scialba tutta la parte introduttiva, poi fa tu.

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