lunedì 10 aprile 2017

Cántico das criaturas

Potrebbe essere esattamente qui, come d’altronde potrebbe essere nell’ovunque altrove, la meta che noi infaticabili visionatori cerchiamo con la bramosia di chi non sa accontentarsi di quello che i nostri “amici” vedono credendo chissacché, non è e non può essere una sosta lunga ed appagante quella di Cántico das criaturas (2006) perché il Gomes di questo corto, reduce dall’esordio nel lungo con A Cara que Mereces (2004), gioca a nascondersi, avanza sotto la traccia para-sperimentale, applica la dimensione ludica al mezzo cinema in un’operazione che caratterizzerà tutta la sua filmografia: c’è anche una delicata nostalgia, una specie di marchio non visibile, ma percepibile, che ha creato qualcosa di similare ad un immaginario poetico: la malinconia, la filigrana dell’ironia, la leggerezza del sentimento, fanno del cinema gomesiano una gemma dell’attualità artistica, il tutto innervato da un vero studio del mezzo, una ricerca strutturale molto appagante che ha trovato in Tabu (2012) il proprio completamento e che ha riverberi non così tenui anche sul lavoro sotto esame.

Costituito da tre parti profondamente eterogenee, e da subito va evidenziata la riuscita fusione della triade in un flusso misteriosamente coerente, Cántico das criaturas nella porzione d’apertura girata in una finta amatorialità (è sì esteticamente vicina all’8mm ma occhio al lavoro in post-produzione sulla frequenza dei fotogrammi) anticipa col menestrello Paolo Manera, uomo di cinema nostrano, la prima metà di Our Beloved Month of August (2008) dove in entrambe le situazioni si viene a creare una bislacca commistione fra musica e ritratto folcloristico (qua abbiamo il vagare per Assisi e la scopertura della statua), ma nella sezione susseguente tutto cambia: al “filmino casalingo” si sostituisce una rappresentazione in costume di San Francesco che ci trasporta nei territori di de Oliveira, l’agiografia di Gomes è un tuffo nel fittizio (i fondali disegnati, l’intensificazione delle luci) che contrasta e parimenti accarezza il segmento ultra realistico dell’inizio. Il generarsi di questo evidente stridio mi pare che esalti le possibilità pressoché smisurate del cinema e della libertà che può garantire a chi ci lavora dentro, non è affatto cosa da poco: anche se il corto non dura più di venti minuti è grazie all’intraprendenza esplorativa che possiamo goderci un piccolo studio sulle potenzialità della settima arte, ed il piacere non si ferma alla messa in scena poiché nello stralcio conclusivo si ha un’ulteriore riconfigurazione, possibile summa delle precedenti: immagini etologiche, e quindi precipitati di realtà, filtrate, riverniciate, splittate e doppiate da una voce infantile che conduce il film in un inaspettato inno alla vita, e quindi alla morte.

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