giovedì 21 settembre 2017

Out of Nature

È la vicenda di uomo colpito da una disaffezione verso tutto ciò che lo circonda, che è tanto: un lavoro, una casa, una famiglia, un posto idilliaco in cui vivere, ma che per lui è poco: c’è una depressione latente, un pessimismo, uno scoglionamento permanente. In questa patologia che forse è più occidentale che altro, il regista norvegese Ole Giæver ci mette dentro tutto quello che ha, la mente (è anche autore della sceneggiatura) e il corpo (è pure attore, l’unico in sostanza), tanto da rendere Mot naturen (2014) una specie di one-man-show filtrato da una sorta di minimalismo. Credo che Giæver nell’illustrare la crisi di un uomo per mezzo di una estromissione dall’urbanità che ricorda un po’ Old Joy (2006) di Kelly Reichardt riesca a sfiorare questioni comunque dotate di una certa autenticità, nel senso: i presupposti su cui si basa tutto il film, ossia le paure, le indecisioni, i cocci di un rapporto che ormai sembra difficile da riassemblare, sono argomento appetibile che invita ad un’esplorazione con annessa auto-interrogazione da parte dello spettatore, è anche vero però che non siamo al cospetto di una tematizzazione esattamente seminale, anzi basta restare in Norvegia per trovare con Oslo, August 31st (2011) una pellicola sostenuta da intenti similari, tuttavia quello che desta un minimo di attenzione in Out of Nature è la totale focalizzazione sul protagonista, il fare del film un lungo monologo interiore rimane comunque una scelta che potrebbe incuriosire.

Ma un conto è la teoria, un altro è la pratica. Giæver per delineare i tormenti di Martin usa la strada più agevole che è quella verbale, così si crea per l’intera durata un soliloquio pesante e superfluo che nel legittimare la propria dimensione mentale sovraccarica la visione di una prolissità ingiustificata, ritengo che il cinema non abbia bisogno necessariamente di dare voce ai pensieri per farci penetrare nella materia grigia di chi sta sullo schermo, un autore come si deve questa azione è in grado di compierla anche soltanto con l’ausilio delle immagini poiché il rischio, in cui incappa Giæver, è quello di didascalizzare ogni singolo movimento/elucubrazione dentro la diegesi. Ergo, siamo telecomandati all’interno delle paturnie di Martin e ciò comporta una fruizione monca, non pienamente appagante né emotivamente coinvolgente. L’abbondanza di istruzioni per l’uso è il difetto principe, sebbene non sia l’unico, in quanto il regista insiste troppo sul giochino di dare corpo alle fantasie utopiche del ragazzo per poi sconfessarle con la realtà dei fatti, il meccanismo è gradevole una o due volte, non altrettanto se è presente in una massiccia riproposizione, più che altro sembra che così agendo ci si trovi dinanzi ad una atrofizzazione concettuale che scade nella replica. Registrate delle finestre comiche e al contempo macchiettistiche (la scena della masturbazione dietro l’albero mi pare un buon esempio), si arriva ad un finale nel rifugio montano che sa parecchio di cucinato a puntino per forzare il dispositivo e direzionare l’opera verso la dimostrazione dell’impossibilità di dare una forte svolta all’esistenza di Martin.

Suggestive alcune riprese fluttuanti coniugate allo score musicale di Ola Fløttum, uno che si è occupato di parecchi prodotti scandinavi visionati negli ultimi anni (Reprise [2006], il già citato Oslo, August 31st, Forza maggiore [2014], Blind [2014] e Segreti di famiglia [2015]). Va da sé che alcuni dettagli dell’apparato audio-estetico e dei motivi di fondo accettabili non mitigano affatto le problematiche di rappresentazione.

Nessun commento:

Posta un commento