lunedì 24 luglio 2017

0cm4

Sommerso dalle travolgenti onde dell’oceano-Sono, 0cm4 (2001) è un piccolo corto di cui si potrebbe anche fare a meno, però, e ora mi rivolgo soltanto agli affezionati del regista giapponese, anche qui possiamo rintracciare alcuni segnali stilistici che sebbene non aumentano il gradimento della visione in un qualche modo fa piacere che ci siano. La storia del protagonista daltonico che vede il mondo in bianco e nero e che decide di tenere un videodiario durante i giorni che lo separano dall’operazione, diventa un’occasione per riversare nel breve tempo a disposizione una notevole quantità di tic personali: già la forma diaristica annessa all’attesa del verificarsi di un evento importante riporta a Keiko desu kedo (1997), inoltre abbiamo l’insistere su una scena dove il ragazzo, sdraiato sul pavimento di una stanza mentale tutta colorata, è ossessionato dal trillare di una sveglia, questo, oltre a suggerirci un possibile avvicinamento al ridestamento “ottico” vissuto con rabbia/preoccupazione, è una lampante citazione del primissimo oggetto non identificato di Sono, Love Song (1984), dove si ripresentava una situazione identica. Ma chiaramente la questione che salta più all’occhio è, ancora una volta, il tentativo di aprire una parentesi meta all’interno dell’opera, e pur trovandoci in una situazione ridotta ai minimi termini, 0cm4 offre comunque uno studio di film-nel-film in cui la presenza di dozzine di telecamere atte a fungere da protesi oculare per l’uomo diventano un meccanismo ludico che svela i dispositivi tecnici. Sull’argomento rivolgersi a Into a Dream (2005) e ovviamente a Why Don’t You Play in Hell? (2013).

Al di là della constatazione di un discorso poetico più o meno continuo nella carriera di Sono che mi rendo conto monopolizza gran parte dei pensieri che scrivo sul giapponese, 0cm4 accenna a tematizzare l’idea interrogante su chi, tra un daltonico e il resto delle persone “normali”, vede il mondo nella maniera corretta. Il dubbio, instillato da una rapida riflessione del protagonista, resta, come prevedibile, privo di un degno sviluppo, si preferisce optare per sequenze un po’ strambe arrangiate così così (così: non eccelse per estetica) costantemente accompagnate da un tappeto musicale davvero bruttino che confluiscono in un finale microscopicamente aperto e forse non privo di una punta d’amarezza.

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