giovedì 13 luglio 2017

Okja

La speranza era che le traiettorie registiche di Bong Joon-ho si orientassero più verso opere come Memorie di un assassino (2003) o Madre (2009) piuttosto che The Host (2006) e Snowpiercer (2013), ma l’impressione è che il regista sudcoreano, già in passato maggiormente vicino ad una certa mentalità mainstream rispetto ad altri colleghi connazionali (anche più di Kim Jee-woon a mio avviso), preferisca lavorare con budget stratosferici, attori famosi e troupe ingenti per partorire poi il classico topolino della montagna, perché Okja (2017), suvvia, è proprio questo, una massiccia ridda di situazioni e personaggi che poi si risolvono in una bagatella confezionata ad hoc. Libertà assoluta ora e sempre per chiunque ha scritto “regista” alla voce “professione” sulla carta di identità, ma a quale prezzo per noi spettatori? Il mero prezzo non è nemmeno quantificabile visto che il film sotto esame non dovrebbe venir distribuito nella sale (almeno quelle italiane) ma solo sulla piattaforma di Netflix, tuttavia il prezzo concettuale è invece a portata d’occhio e ci delinea un quadro che chi scrive trova un po’ scoraggiante, cioè: è una storia, il che potrebbe essere già un problema, ma proseguiamo: è una storia stereotipata, dicotomizzata e disneyana, quindi sì, i problemi sono grossi: stufa un film così perché stufa una strutturazione così elementare degli ingredienti in gioco, e alla schematizzazione si aggiunge a rimorchio la prevedibilità, quanto accade è precedentemente accaduto o sarà lì pronto per farlo, nella stessa pellicola o in un’altra, che poi è la stessa roba. Può andare qualunque cosa nel campo dell’intrattenimento, anche un eccesso di forzature sceneggiaturiali (tipo Mija che entra con disarmante facilità nel mattatoio) e risoluzioni narrative (come quella finale che salva il super-suino, da brividi, in negativo ovviamente), ma non un plateale adagiamento sui modelli precostituiti del bene vs. male e di un’annessa caratterizzazione convenzionale dei soggetti interessati.

Alla fine della favola (cosa che Okja è) se i vari comparti costituenti possiedono un nucleo banale anche la controparte sottotestuale si inaridisce, che a dirla tutta non è neanche tanto “sotto” qui, gli intenti di Bong sono chiari dall’incipit con la caricaturale (ed anche wesandersoniana) presentazione della multinazionale capitanata da una Swinton sopra le righe seguita a ruota da un bizzarro Gyllenhaal, il mantra che da lì si dispiega è un continuo strizzare l’occhiolino che non smette di rimarcare l’inefficienza di quelle politiche commerciali irrispettose degli animali, della natura e via dicendo. Non è un contenuto che si potrebbe definire illuminante. C’è poi un piccolo paradosso che attraverso una valutazione ex post viene a crearsi: Bong punta il dito contro la Mirando e i suoi metodi di produzione, però, se ragioniamo in modo più ampio, con il suo film non fa che seguire i medesimi canali della Società statunitense: Okja è il prodotto di uno sforzo multiculturale dato in pasto al pubblico una volta terminato e diretto da una persona con una squadra di collaboratori alle spalle, sicché ogni passaggio in streaming diviene un pezzetto di maiale che arriva sulle nostre tavole (/schermi), ne deriva che questo cinema pur bollando i cicli produttivi della globalizzazione se ne avvale a sua volta per esporsi al mondo intero. È un cortocircuito forzato da un’interpretazione troppo ostile? Lascio la risposta aperta per sottoporne subito un’altra: cosa poteva fare Bong per essere davvero incisivo? In un mondo ideale avrebbe potuto operare lontano dai riflettori sfornando un oggetto a suo agio nell’ipotetico sottobosco della denuncia, è pura utopia, lo so benissimo, in realtà non so cosa avrebbe dovuto e potuto fare, magari proprio un’altra tipologia di film, come una commedia pura ad esempio, d’altronde Joon-ho ha sempre saputo integrare bene le parentesi comiche all’interno di altri registri (la fusione con il crime l’abbiamo apprezzata tutti nei tempi che furono), ed ora, dopo le sortite a stelle e strisce, poteva riacquistare una dimensione più ammirevole con un lavoro in stile Cane che abbaia non morde (2000)... ancora un’utopia, lo so.

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