lunedì 3 luglio 2017

Palácios de Pena

Prima di qualunque addentramento interpretativo mi preme sottolineare quello che secondo il mio superfluo parere conta di più, ovvero la capacità insita in Palácios de Pena (2011) di rimandare, leggi: trasportare, in altri “stati” percettivi arrivando, in taluni frangenti, ad una sospensione dell’oggetto filmico che staccatosi dal suolo dell’ordinario ha le potenzialità per espandersi in qualunque direzione concepibile. Forse questa dilatazione non arriva a compiersi del tutto, certo è che il mediometraggio di Gabriel Abrantes e Daniel Schmidt, due che collaborano da tempo e che qui sono presenti nelle vesti di antichi cavalieri, si distingue per il suo farsi recipiente pressoché inesauribile di suggestioni, e nel fondersi con i registri più disparati (il teen movie ingravidato dal film in costume) manifesta un cinema che banalmente definirei vivo perché non soffocato da politiche ammaestranti, perché generatore di molti dubbi e zero risposte, perché oggetto tendente alla ricerca visiva con susseguente appagamento ottico. Se non bastasse, Abrantes e Schmidt che ben incarnano il sempre interessante movimento portoghese, probabilmente uno dei migliori a livello artistico, sanno fare propri degli accenti appartenenti ad altri autori più conosciuti di loro, si badi che ci si riferisce sempre a stimolazioni sensoriali prive di tracce empiriche, eppure la lampadina che si è accesa nella prima parte ha evocato la figura di Reygadas e in seconda battuta quella di Aguilera (Naufragio, 2010), anche se nel prosieguo il riferimento che mi sembra emerga con più vigore è quello di Miguel Gomes che comunque nel 2011 non era ancora salito alla ribalta cinefila ma che tuttavia aveva già fatto intravedere scampoli di uno studio stralunato.

Citazioni, nessi, somiglianze ma anche un’indipendenza forte, un’estetica mai scontata e una noncuranza nei confronti dello spettatore: Palácios de Pena possiede tutte le caratteristiche per essere un film che oggi, nel 2017, voglio vedere. E sottolineo il verbo vedere perché sulla correlata comprensione ci si può anche impegnare ma senza che sussista una qualsivoglia obbligatorietà, la libertà del cinema deve stare anche (e soprattutto!) nella possibilità di un apprezzamento che non significhi per forza “capire-tutto”. Ad ogni modo: è possibile intender il film di Abrantes & Schmidt come un film sul Portogallo d’oggi, e al di là dell’ovvia constatazione ci sono elementi tangenti la metafora che pur disorientandoci riescono a comunicare uno scenario che parrebbe in transizione, e lo palesa già la Nonna, probabile incarnazione della Nazione, così anziana e dai modi a tratti sciamanici eppure con in mano un iPad; il passaggio temporale, che si avvale di una parentesi onirico-medievale scollata solo in apparenza dove viene tracciato un fulminante quadretto storico di omofobia e persecuzione, trova catarsi nell’annesso passaggio di consegne dalla nonna verso le due cugine protagoniste di una bislacca faida personale. La nuova generazione è segnata da opposizioni interne e da scorie del passato non del tutto eliminate (il monologo della ragazzina nel quale si afferma che lei [a chi si riferisce?] è una super razzista e che odia gli asiatici), e allora mentre le fiamme si alzano minacciose l’ultima inquadratura è lì a chiederci chi salverà il Portogallo dal fuoco.

E se così non fosse amen, l’importante è Vedere.

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