Prima di qualunque
addentramento interpretativo mi preme sottolineare quello che secondo
il mio superfluo parere conta di più, ovvero la capacità insita in
Palácios de Pena (2011) di rimandare, leggi: trasportare, in
altri “stati” percettivi arrivando, in taluni frangenti, ad una
sospensione dell’oggetto filmico che staccatosi dal suolo
dell’ordinario ha le potenzialità per espandersi in qualunque
direzione concepibile. Forse questa dilatazione non arriva a
compiersi del tutto, certo è che il mediometraggio di Gabriel
Abrantes e Daniel Schmidt, due che collaborano da tempo e che qui
sono presenti nelle vesti di antichi cavalieri, si distingue per il
suo farsi recipiente pressoché inesauribile di suggestioni, e nel
fondersi con i registri più disparati (il teen movie
ingravidato dal film in costume) manifesta un cinema che banalmente
definirei vivo perché non soffocato da politiche
ammaestranti, perché generatore di molti dubbi e zero risposte,
perché oggetto tendente alla ricerca visiva con susseguente
appagamento ottico. Se non bastasse, Abrantes e Schmidt che ben
incarnano il sempre interessante movimento portoghese, probabilmente
uno dei migliori a livello artistico, sanno fare propri degli accenti
appartenenti ad altri autori più conosciuti di loro, si badi che ci
si riferisce sempre a stimolazioni sensoriali prive di tracce
empiriche, eppure la lampadina che si è accesa nella prima parte ha
evocato la figura di Reygadas e in seconda battuta quella di Aguilera
(Naufragio, 2010), anche se nel prosieguo il riferimento che
mi sembra emerga con più vigore è quello di Miguel Gomes che
comunque nel 2011 non era ancora salito alla ribalta cinefila ma che
tuttavia aveva già fatto intravedere scampoli di uno studio
stralunato.
Citazioni, nessi,
somiglianze ma anche un’indipendenza forte, un’estetica mai
scontata e una noncuranza nei confronti dello spettatore: Palácios
de Pena possiede tutte le caratteristiche per essere un film che
oggi, nel 2017, voglio vedere. E sottolineo il verbo vedere
perché sulla correlata comprensione ci si può anche impegnare ma
senza che sussista una qualsivoglia obbligatorietà, la libertà del
cinema deve stare anche (e soprattutto!) nella possibilità di un
apprezzamento che non significhi per forza “capire-tutto”. Ad
ogni modo: è possibile intender il film di Abrantes & Schmidt
come un film sul Portogallo d’oggi, e al di là dell’ovvia
constatazione ci sono elementi tangenti la metafora che pur
disorientandoci riescono a comunicare uno scenario che parrebbe in
transizione, e lo palesa già la Nonna, probabile incarnazione della
Nazione, così anziana e dai modi a tratti sciamanici eppure con in
mano un iPad; il passaggio temporale, che si avvale di una parentesi
onirico-medievale scollata solo in apparenza dove viene tracciato un
fulminante quadretto storico di omofobia e persecuzione, trova
catarsi nell’annesso passaggio di consegne dalla nonna verso le due
cugine protagoniste di una bislacca faida personale. La nuova
generazione è segnata da opposizioni interne e da scorie del passato
non del tutto eliminate (il monologo della ragazzina nel quale si
afferma che lei [a chi si riferisce?] è una super razzista e
che odia gli asiatici), e allora mentre le fiamme si alzano
minacciose l’ultima inquadratura è lì a chiederci chi salverà il
Portogallo dal fuoco.
E se così non fosse
amen, l’importante è Vedere.
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