martedì 17 ottobre 2017

Az ember tragédiája

Az ember tragédiája (2011) è un kolossal animato proveniente dall’Ungheria con una lunghissima gestazione alle spalle, il regista Marcell Jankovics, nominato all’Oscar nel ’76 per lo short Sisyphus (1974), ha impiegato ben ventitre anni per portare a compimento la sua opera-mondo, numerose sono state infatti le vicissitudini (riconducibili essenzialmente alla mancanza di denaro, la quale fu lenita nel 2008 dai dollari americani provenienti dal corto sopraccitato inserito in uno spot trasmesso durante il Super Bowl) tanto che lo costrinsero, in alcune occasioni, a presentare il film a pezzi. Tratto da un poema magiaro del 1861 intitolato appunto The Tragedy of Man, fonte, fra l’altro, anche di un film visto da queste parti: The Annunciation (1984), Az ember tragédiája si prefigge un obiettivo smisurato: raccontare la storia dell’umanità partendo dalla Creazione. Ad un’ambizione del genere corrisponde un lavoro fuori dagli standard dell’animazione poiché parliamo di quasi tre ore di proiezione nelle quali le spigolose inflessioni ungheresi dei doppiatori discernono di quella abbagliante complessità che è la vita e di coloro i quali la vivono, compresi i fattori che la sostanziano come l’amore, la libertà, l’uguaglianza, la fede. E per fare ciò Jankovics decide di compiere una maestosa cavalcata tra ere ed ere, il motto è: provare a capire le varie epoche per provare a capire l’uomo. Comprenderete allora che siamo di fronte ad un azzardo, una scommessa che pretende parecchio dallo spettatore in termini di attenzione.

Il canovaccio narrativo è pressoché lo stesso per tutta la durata del film, dopo la cacciata dall’Eden Lucifero tentatore fa da guida [1] attraverso i vari periodi storici ad un Adamo alla costante ricerca della sua Eva. Quanto viene in superficie è una ricorsività della Storia, una reiterazione di fatti e azioni riguardanti gli esseri umani che si ripresenta anche a distanza di secoli, si parla, ovviamente, di questioni disdicevoli come guerre, lotte e stermini, qui Jankovics è abile nel sottolineare una tale dimensione votata al ripetersi tramite svariati accorgimenti visivi che implementano il discorso, così nonostante il passaggio dall’antico Egitto alla Grecia classica, o dalla Rivoluzione francese alla Londra ottocentesca tutto cambia per far sì che nulla cambi realmente. In questo che altro non è se non un gigantesco loop, la narrazione si carica l’onere di una proiezione futura che comincia verso il centoventesimo minuto. Omesso il Secolo breve (ed è strano vista la mole di accadimenti qui sintetizzati in rapide sequenze), siamo trasportati in due lontane zone temporali, la prima è una specie di tecnocrazia dove l’apparenza di una civiltà sottende un’establishment fascista, mentre la seconda, estrema e periferica, è uno scenario post-atomico degno di Dead Man’s Letters (1986) che riporta l’umanità al grado zero. Ebbene, giunti al termine del viaggio è un evidente pessimismo il sentimento che trasuda maggiormente dall’imponente lungometraggio, ovvio che non è rintracciabile alcun elemento innovativo in un racconto che per certi versi non diverge troppo da un bignami scolastico, ma la vena romantica del sottoscritto vuole comunque gratificare sia la costanza dell’autore che il proposito di maneggiare tematiche così ampie da diventare mai come ‘sta volta universali.

Dove invece Jankovics risulta francamente indifendibile è nella realizzazione tecnica del film. Capisco la differenziazione degli stili di disegno in base alle età rappresentate, ma nella globalità questo tipo di animazione bidimensionale è indietro anni luce rispetto all’offerta attuale nel campo di riferimento. Sembra che Jankovics si sia fermato al momento in cui iniziò a concepire il progetto, pertanto l’abito estetico, non dissimile, ad esempio, dalle forme di René Laloux, risulta molto deficitario, il che, se rapportato al complessivo minutaggio, può appesantire la visione svalutandone i contenuti.
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[1] Questo demonio proteiforme che risulta il personaggio più solido di tutto il film assomiglia al “collega” presente in Faust (2011) di Sokurov, stessa cialtroneria, stesso atteggiamento da smargiasso.

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