Per il mio sentire e per
il mio modo di intendere il cinema adesso, Portret v sumerkakh
(2011) è un film che oscilla tra l’indecenza e l’irritazione,
sentimenti che fioriscono spontanei al cospetto di un debutto
che lascia attoniti per l’assenza totale di uno scheletro portante
e motivante, come se la regista Angelina Nikonova, coadiuvata nella
scrittura dall’attrice protagonista dell’opera, avesse avuto
nella testa una sagoma confusa mescolante il degrado della Russia
odierna e l’assenza delle istituzioni, la violenza maschile,
l’insoddisfazione occidentale degli over quaranta e l’incontro
tra due anime opposte inconciliabili, e ad ognuno di questi concetti
si possono muovere delle critiche che disintegrano ogni buon
proposito di visione, e lo farò perché Twilight Portrait se
lo merita, ma prima di tutto, la questione fondamentale che precede
qualunque opinione negativa, riguarda il fatto che nel tentare una
strada dove la narrazione è logica e lineare si legittima la
necessità di mantenere sempre alti gli standard della veridicità,
in tali frangenti quello che si vede deve per forza essere traslabile
anche fuori dalla sala, in caso contrario il dazio da pagare si
chiama ridicolo involontario al quale soggiacciono tag come
“forzatura” e “artificio”, elementi che remano esattamente
contro il mood realistico al quale il film aspirerebbe.
Sul fatto che nell’ex
Unione Sovietica ogni luogo sia la periferia più periferia di
qualsiasi città europea è un fatto noto e il cinema russo ce lo
ricorda ogni volta, la Nikonova qui fa un lavoro sufficiente ma molti
prima e dopo di lei sono stati più convincenti (un My Joy
[2010] a caso ce lo ricorda), la sensazione è che ci sia ancora
parecchio da girare e da vedere per lei. In merito alla tesi delle
istituzioni inquinate dal contesto deumanizzato si scade nel
vignettistico con i (soliti) poliziotti-cattivi o con sottolineature
marcatissime (la denuncia del furto) che ci imboccano fino a
strafogarci; a proposito della prepotenza sulle donne, peraltro
abbozzata e messa lì giusto per dare un minimo di spessore al lavoro
di Marina, si assiste nel finale ad un pasticcio colossale che ho
trovato inspiegabile (cosa voleva dirci la regista? Che non tutti i
padri sono dei bruti e che a volte le figlie sono delle deficienti?
Mah! È tutto così costruito e innaturale…), meglio soprassedere
perché il tonfo giunge inevitabile con l’avvicinarsi tra lei e lui
che è… come dire? Improponibile? Ad onor del vero tutto è lecito,
ma, ripeto, in un contesto come quello della Nikonova c’è la
necessità di presupposti narrativi credibili altrimenti accade
l’irreparabile: non si crede a niente di quanto si assiste e allora
il distacco unito ad un certo fastidio si fa sempre più largo. Evito
di entrare negli episodi, semplicemente la sindrome di Stoccolma in
salsa erotica che si viene a creare non regge, è soltanto una
strumentalizzazione nella costruzione generale, serviva un cambio di
prospettive esistenziali per Marina e si è tentato di arrangiare
alla buona una connessione con l’aguzzino di turno.
E a proposito di Marina:
data la centralità assoluta della sua figura devo dire che non
poteva essere tratteggiata in modo peggiore. Se sulla carta c’era
probabilmente l’intenzione di trasmettere le difficoltà che le
donne nella Russia d’oggi devono fronteggiare, quello che ne esce è
un profilo instabile che nasconderà pure un dissesto psicologico non
da poco ma al quale non ci è dato l’accesso per la comprensione.
Quanto è insopportabile dunque un manichino mosso da esigenze
scritturiali che non tengono conto dei processi umani che dovrebbero
sottenderle? La risposta sta in un metodo che non funziona, sprecare
altre parole è trop
Nessun commento:
Posta un commento