lunedì 8 gennaio 2018

Twilight Portrait

Per il mio sentire e per il mio modo di intendere il cinema adesso, Portret v sumerkakh (2011) è un film che oscilla tra l’indecenza e l’irritazione, sentimenti che fioriscono spontanei al cospetto di un debutto che lascia attoniti per l’assenza totale di uno scheletro portante e motivante, come se la regista Angelina Nikonova, coadiuvata nella scrittura dall’attrice protagonista dell’opera, avesse avuto nella testa una sagoma confusa mescolante il degrado della Russia odierna e l’assenza delle istituzioni, la violenza maschile, l’insoddisfazione occidentale degli over quaranta e l’incontro tra due anime opposte inconciliabili, e ad ognuno di questi concetti si possono muovere delle critiche che disintegrano ogni buon proposito di visione, e lo farò perché Twilight Portrait se lo merita, ma prima di tutto, la questione fondamentale che precede qualunque opinione negativa, riguarda il fatto che nel tentare una strada dove la narrazione è logica e lineare si legittima la necessità di mantenere sempre alti gli standard della veridicità, in tali frangenti quello che si vede deve per forza essere traslabile anche fuori dalla sala, in caso contrario il dazio da pagare si chiama ridicolo involontario al quale soggiacciono tag come “forzatura” e “artificio”, elementi che remano esattamente contro il mood realistico al quale il film aspirerebbe.

Sul fatto che nell’ex Unione Sovietica ogni luogo sia la periferia più periferia di qualsiasi città europea è un fatto noto e il cinema russo ce lo ricorda ogni volta, la Nikonova qui fa un lavoro sufficiente ma molti prima e dopo di lei sono stati più convincenti (un My Joy [2010] a caso ce lo ricorda), la sensazione è che ci sia ancora parecchio da girare e da vedere per lei. In merito alla tesi delle istituzioni inquinate dal contesto deumanizzato si scade nel vignettistico con i (soliti) poliziotti-cattivi o con sottolineature marcatissime (la denuncia del furto) che ci imboccano fino a strafogarci; a proposito della prepotenza sulle donne, peraltro abbozzata e messa lì giusto per dare un minimo di spessore al lavoro di Marina, si assiste nel finale ad un pasticcio colossale che ho trovato inspiegabile (cosa voleva dirci la regista? Che non tutti i padri sono dei bruti e che a volte le figlie sono delle deficienti? Mah! È tutto così costruito e innaturale…), meglio soprassedere perché il tonfo giunge inevitabile con l’avvicinarsi tra lei e lui che è… come dire? Improponibile? Ad onor del vero tutto è lecito, ma, ripeto, in un contesto come quello della Nikonova c’è la necessità di presupposti narrativi credibili altrimenti accade l’irreparabile: non si crede a niente di quanto si assiste e allora il distacco unito ad un certo fastidio si fa sempre più largo. Evito di entrare negli episodi, semplicemente la sindrome di Stoccolma in salsa erotica che si viene a creare non regge, è soltanto una strumentalizzazione nella costruzione generale, serviva un cambio di prospettive esistenziali per Marina e si è tentato di arrangiare alla buona una connessione con l’aguzzino di turno.

E a proposito di Marina: data la centralità assoluta della sua figura devo dire che non poteva essere tratteggiata in modo peggiore. Se sulla carta c’era probabilmente l’intenzione di trasmettere le difficoltà che le donne nella Russia d’oggi devono fronteggiare, quello che ne esce è un profilo instabile che nasconderà pure un dissesto psicologico non da poco ma al quale non ci è dato l’accesso per la comprensione. Quanto è insopportabile dunque un manichino mosso da esigenze scritturiali che non tengono conto dei processi umani che dovrebbero sottenderle? La risposta sta in un metodo che non funziona, sprecare altre parole è trop

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