Con estremo
ritardo dico la mia a proposito di The Capsule (2012),
per farlo parto da un’affermazione comparativa facile facile: è un
oggetto piuttosto differente rispetto a ciò che Athina Rachel
Tsangari ci aveva fatto vedere fino a quel momento, sicché vi è una
distanza anche dal famigerato movimento ellenico di cui la regista è
stata la principale fautrice insieme a Lanthimos. Al contempo, giusto
per rifugiarci in una constatazione banale, anche il corto presentato
a Locarno ’12 è un conglomerato di simboli, anzi lo strato
simbolico è così spesso che si potrebbe tagliare col machete.
Pregio o difetto? Boh. Intanto va sottolineato di come The
Capsule sia un progetto
crossmediale che ha unito diverse espressioni artistiche (arte
contemporanea, cinema e fashion) sotto l’egida di tal Dakis
Ioannou, un mecenate greco-cipriota che tramite la fondazione DESTE
da lui diretta ha sostentato il lavoro della Tsangari, la quale a sua
volta si è ispirata alla pittrice polacca Aleksandra Waliszewska
(qui co-sceneggiatrice) per imprimere su schermo il fiorire incubico
che andiamo a tentar di decrittare. Insomma, il fermento culturale
dietro al film non manca e tutte queste connessioni extrafilmiche,
tradotte in una regia che spazia tanto nelle atmosfere quanto negli
accorgimenti tecnici, partoriscono un’opera diversa,
molto estetizzata (a tratti sembra proprio di “sfogliare” una
rivista di moda), ma anche inconsueta, ed in fondo ritengo che ciò
sia una qualità non trascurabile, nel polverone filmico che lievita
festival dopo festival chi riesce a svettare un minimo merita
attenzione.
Snocciolate
sommariamente le informazioni produttive, tocca andare nel nucleo
della Capsula, o
almeno tentare un avvicinamento, ché non è mica facilissimo
fronteggiare una mezz’ora e più di sfrenato surrealismo. Comunque,
è abbastanza chiaro che il punto nodale si situi nella
rappresentazione di un concetto muliebre originario, di un qualcosa
che sta prima della Vita, e viene in mente, ad esempio, il notevole
Evolution (2015) di
Lucile Hadžihalilović come possibile sviluppo teorico di un tipico
– si fa per dire – luogononluogo, così in un collegio che
diventa, per dirla in modo brutto, un centro di educazione
sull’essere donna, la in primis produttrice Tsangari si adopera nel
calare le sue ragazze in un clima dove ogni gesto e ogni dettaglio
potrebbero celare rimandi al macro-tema femmineo. Oddio, forse in
alcuni casi l’impressione è che si prenda una piega priva di un
interpretabile o di significati reconditi in quanto il senso è
semplicemente quello di essere lì,
in video, nel film, ma altre sequenze possiedono una carica che
arriva a destinazione, si veda la scena del ballo vivificante (è
accostabile, in misura ridotta, all’entrata di Tous les
garcons et les filles in
Attenberg, 2010), o
l’insistenza sulle piccole uova, segno di fecondazione,
somministrate al gruppetto, e non solo via bocca a quanto si vede. E
a proposito di Attenberg,
è vero, sono due film in cui è arduo rintracciare un filo
conduttore, se non che, in fondo, ambedue ci parlano di un percorso
femminile, e, se allarghiamo il nostro orizzonte, non facciamo troppa
fatica ad intendere la pellicola del 2010 come una costola di The
Capsule poiché esso è,
potenzialmente, un contenitore di storie infinite, sia passate che
future, infatti, senza volere gonfiare troppo l’esegesi, la parola
“capsula” dà subito l'idea di un recipiente, di un involucro che
contiene.
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