mercoledì 17 gennaio 2018

The Capsule

Con estremo ritardo dico la mia a proposito di The Capsule (2012), per farlo parto da un’affermazione comparativa facile facile: è un oggetto piuttosto differente rispetto a ciò che Athina Rachel Tsangari ci aveva fatto vedere fino a quel momento, sicché vi è una distanza anche dal famigerato movimento ellenico di cui la regista è stata la principale fautrice insieme a Lanthimos. Al contempo, giusto per rifugiarci in una constatazione banale, anche il corto presentato a Locarno ’12 è un conglomerato di simboli, anzi lo strato simbolico è così spesso che si potrebbe tagliare col machete. Pregio o difetto? Boh. Intanto va sottolineato di come The Capsule sia un progetto crossmediale che ha unito diverse espressioni artistiche (arte contemporanea, cinema e fashion) sotto l’egida di tal Dakis Ioannou, un mecenate greco-cipriota che tramite la fondazione DESTE da lui diretta ha sostentato il lavoro della Tsangari, la quale a sua volta si è ispirata alla pittrice polacca Aleksandra Waliszewska (qui co-sceneggiatrice) per imprimere su schermo il fiorire incubico che andiamo a tentar di decrittare. Insomma, il fermento culturale dietro al film non manca e tutte queste connessioni extrafilmiche, tradotte in una regia che spazia tanto nelle atmosfere quanto negli accorgimenti tecnici, partoriscono un’opera diversa, molto estetizzata (a tratti sembra proprio di “sfogliare” una rivista di moda), ma anche inconsueta, ed in fondo ritengo che ciò sia una qualità non trascurabile, nel polverone filmico che lievita festival dopo festival chi riesce a svettare un minimo merita attenzione.

Snocciolate sommariamente le informazioni produttive, tocca andare nel nucleo della Capsula, o almeno tentare un avvicinamento, ché non è mica facilissimo fronteggiare una mezz’ora e più di sfrenato surrealismo. Comunque, è abbastanza chiaro che il punto nodale si situi nella rappresentazione di un concetto muliebre originario, di un qualcosa che sta prima della Vita, e viene in mente, ad esempio, il notevole Evolution (2015) di Lucile Hadžihalilović come possibile sviluppo teorico di un tipico – si fa per dire – luogononluogo, così in un collegio che diventa, per dirla in modo brutto, un centro di educazione sull’essere donna, la in primis produttrice Tsangari si adopera nel calare le sue ragazze in un clima dove ogni gesto e ogni dettaglio potrebbero celare rimandi al macro-tema femmineo. Oddio, forse in alcuni casi l’impressione è che si prenda una piega priva di un interpretabile o di significati reconditi in quanto il senso è semplicemente quello di essere , in video, nel film, ma altre sequenze possiedono una carica che arriva a destinazione, si veda la scena del ballo vivificante (è accostabile, in misura ridotta, all’entrata di Tous les garcons et les filles in Attenberg, 2010), o l’insistenza sulle piccole uova, segno di fecondazione, somministrate al gruppetto, e non solo via bocca a quanto si vede. E a proposito di Attenberg, è vero, sono due film in cui è arduo rintracciare un filo conduttore, se non che, in fondo, ambedue ci parlano di un percorso femminile, e, se allarghiamo il nostro orizzonte, non facciamo troppa fatica ad intendere la pellicola del 2010 come una costola di The Capsule poiché esso è, potenzialmente, un contenitore di storie infinite, sia passate che future, infatti, senza volere gonfiare troppo l’esegesi, la parola “capsula” dà subito l'idea di un recipiente, di un involucro che contiene.

Nessun commento:

Posta un commento