Difficile, ma che dico, criptico fino all’indecifrabilità, lungometraggio herzoghiano del 1976 ambientato in un periodo imprecisato dell’800 in cui si narra la storia di un piccolo villaggio bavarese la cui economia è sorretta da una vetreria che produce un particolare vetro denominato rubino. Ma la formula per ottenere questo rubino è conosciuta soltanto dal mugnaio, e quando il mugnaio muore il proprietario della vetreria esce matto per cercare di ricreare quel magico vetro. Il veggente Hias, che aveva predetto tutto questo, viene rinchiuso in una prigione, ma dopo essere scappato ritorna nel bosco dove ha un’ultima visone.
Ora mi guzzanizzo: visioni sgranate, piroettante nullità, esercizio stilistico per palati di platino laccati in oro affascinati dall’irrazionalità audio-visiva. Attori in trance ipnotica scollegati tra loro e con se stessi, periodi e personaggi sconnessi. Tra fiamme scintillanti che creano forme di vetro, e segreti sotterrati in una bara, il messaggio di fondo, se mai ce ne fosse uno, si perde nelle parole sghembe del profeta.
A leggere molte recensioni lo si dipinge come un mezzo capolavoro. Si parla di fine del mondo, di apocalisse naturale umana e atomica, di ciclicità temporale, del tempo, di Dio, della tristezza e della malinconia.
Boh, io vedendolo quasi quasi rimpiangevo Zulawski.
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