Interessanti
i cambi di marcia di Sulev Keedus che segnano il suo curriculum in
modo più che marcato, il rimbalzare da opere smaccatamente di
finzione dotate di un substrato onirico-allegorico ad altre di puro
documentario è il sintomo di un autore percorso da una vivacità
artistica ammirabile, così se nel 2003 girava Somnambulance
ecco quattro anni dopo presentarsi con Jonathan Austraaliast
(di cui ho una copia ma priva di sottotitoli), stesso procedimento
che avverrà con l’accoppiata Letters to Angel (2011)
e Varesesaare venelased (2012),
insomma dei testacoda di metodo mica da sottovalutare perché
nell’ambito documentaristico Keedus pota un po’ tutti i vari
accorgimenti della messa in scena per offrire film davvero ridotti
all’osso, c’è lui e i soggetti che va a riprendere,
praticamente nient’altro. Nel lavoro sotto esame veniamo
letteralmente gettati in una zona orientale dell’Estonia al confine
con la Russia, più precisamente una lingua di terra detta Kreenholm
(Crow Island) all’interno del fiume Narva, un rettangolo di 750 x
250 metri dove sorgeva una delle più grandi fabbriche tessili d’Europa, la Krenholm Manufacturing Company che chiuse nel 2010. Keedus
parte proprio da qua: scandisce il tempo narrativo di Varesesaare
venelased attraverso la fine
dell’attività manifatturiera, ma le mire del regista non si
situano tanto nel sottolineare le problematiche relative
all’automatica disoccupazione che sta investendo il luogo (il primo
dialogo tra la donna anziana e quella più giovane è l’unico che
va in tale direzione), quanto nell’infiltrarsi in un tessuto
sociale disastrato dall’alcol e dalla droga già da anni.
Sfuggendomi la connessione diretta tra fabbrica-tossicodipendenti (la
gioventù del luogo è figlia di immigrati russi a loro volta
sfasciati dai vizi?), quanto vediamo è una discesa che, sarà banale
dirlo, non sembra avere ritorno, è un’immersione in un nugolo di
esseri umani giovani (ssimi in alcuni casi) purtroppo già sdentati,
o catatonici o sieropositivi o alcolizzati o autolesionisti o tutte
le cose messe insieme. Di derelitti, nel cinema, ne abbiamo visti
tanti, di ogni nazione e di ogni categoria, ciò non significa,
comunque, che ci si possa assuefare ad uno scempio esistenziale del
genere, Keedus sta stretto sui volti dei ragazzi immortalati i quali
vomitano davanti alla mdp tante storie di diversa disperazione che si
riuniscono in unico canto funereo. Inutile stare a descrivere le
vicende di violenza e di dipendenza delle persone nello schermo,
siamo in Estonia ma potremmo essere in una favela brasiliana, si
tratta, essenzialmente, di cogliere quel disfacimento che oserei
definire universale, un fallimento che nel caso locale è dello Stato
(è forse anche una critica verso l’URSS?) incapace di dare un
aiuto ai cittadini in difficoltà, ma che allargando la visuale si fa
di tutti. Sembrerebbe infima retorica e magari lo sarà anche,
però nel momento in cui una donna di vent’anni racconta di aver
già tentato più volte il suicidio o quando vediamo un suo coetaneo
annichilito dalla droga che passa le giornate a bere tè davanti al
PC siamo chiamati in causa anche noi in quanto appartenenti alla
stessa razza, umana ovviamente. E mi correggo: la discesa ha un
possibile ritorno: la bimba del finale che alita sull’obiettivo è
un refolo di cambiamento, uno spiffero di futuro.
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