Se prendiamo in prestito
il titolo di un libro di Francesco Pecoraro, El lugar más pequeño
(2011) è la vita in tempo di pace, un resoconto che arriva parecchi
anni dopo una devastante guerra civile che, come ci avvisa l’alert
ad inizio film, dal 1979 al al 1991 ha causato nello stato di El
Salvador più di ottantamila morti oltre a migliaia di desaparecidos,
e, almeno nella prima parte, la regista Tatiana Huezo Sánchez,
avvalendosi delle testimonianze dei sopravvissuti, illustra come il
villaggio di Cinquera, ora, sia un villaggio “qualunque” in
America centrale con le sue vecchiette che oziano all’ombra, i
bambini che corrono per strada e il piccolo tessuto economico locale
che funziona. Il procedimento usato dalla Huezo Sánchez è in buona
sostanza il medesimo che riproporrà anche nel successivo Tempestad
(2016), nuovamente il cinema si fa contenitore di una memoria che in
questo caso riguarda una precisa collettività, ed è una memoria da
cui non possono che sgocciolare lacrime e sangue, tanto sangue e
tanta violenza che fa rima con repressione ma anche con resistenza,
perché il documentario in oggetto è un presidio da conservare
contro qualunque privazione della libertà altrui, è una storia di
perdite, di ingiustizie, di paura e al contempo di tenacia assoluta,
miracolosa, di dignità, e si badi che, ovviamente, non vi è la
benché minima esibizione/ricostruzione dell’orrore perpetrato
verso i dissidenti, ci sono solo le loro voci, spesso fuori campo,
eppure la forza immedesimante non viene meno.
Quindi, se trenta,
trentacinque minuti sono utili a fornire il quadro storico dei tristi
accadimenti, ad un certo punto si decide di alzare il tiro: un cielo
nero gonfio di nuvole e la narrazione interna si adombra, di più: si
annerisce, entriamo nel dramma, i ricordi degli abitanti di Cinquera
si fanno angosciosi, se non disperati, le madri piangono per le
figlie brutalmente uccise, e i figli fanno altrettanto per i padri
scomparsi da una notte all’altra. Forse durante la visione non si
ha il polso della situazione, eppure, dopo, è appagante ammettere
che in quei frangenti così evocativi che attraverso un incontro tra
immagini e parole raggiungono vette di rara intensità, si realizza
l’ammutolente potenza della settima arte che a volte, e El lugar
más pequeño è una di quelle volte, si trasforma in un megafono
emozionale che trasmette ben oltre il mostrato, e così facendo si
divarica al punto di inglobarci rendendo la vicenda di questi
salvadoregni scampati al loro Olocausto personale anche un po’ la
nostra: dobbiamo fare silenzio, ssshh, siamo in una caverna piena di
pipistrelli appollaiati sulle rocce, fa così buio che se ci portiamo
le mani davanti agli occhi non riusciamo a vederle, però a
differenza degli altri compagni siamo ancora vivi, ssshh...
Il ritorno alla realtà
fruitiva è dato dalla cruda messa in sequenza di fotografie in
bianco e nero di giovani deceduti durante il lungo conflitto,
arrivati qui il film ha detto tutto del proprio passato, dopo c’è
un soffio di speranza nelle nascite di un pulcino spelacchiato e di
un vitello. Sotto la pioggia scrosciante che lava via l’abominio,
la vita continua.
Tatiana Huezo Sánchez è
un talento vero.
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