venerdì 7 agosto 2020

Oblivion Verses

Prima di ogni possibile riflessione, trovo intrigante il ponte geografico eretto da Alireza Khatami che collega due realtà diverse per quanto riguarda la loro collocazione sulla cartina, ma che, come il regista spiega tra le righe, hanno un denominatore in comune che le unisce in modo fattuale, ne consegue allora che il link non si rifà solo alla geografia, c’è di più, c’è la Storia, una politica, un’umanità, la Morte e la dirimpettaia di sempre. Abbiamo sullo schermo un luogo indefinito, che è in Sud America (Cile? Argentina?) come potrebbe essere in un ovunque dove il potere coincide con la sopraffazione militare, ergo: ecco profilarsi l’Iran del regista, così, la vicenda effigiata in un formato dagli angoli arrotondati, diventa una pagina aperta in cui si può leggere un piccolo grande racconto universale nel quale le componenti sono potenzialmente intercambiabili con altre diverse e, ovviamente, uguali. So cosa starete malignamente pensando, “oh no, Los Versos del Olvido (2017) è l’ennesimo film che vuole stigmatizzare i carnefici e santificare le vittime”, però per il sottoscritto le cose non sono propriamente tali, l’opera non è il protocollo di un’agiografia degli innocenti, diciamo che Khatami inquadra la situazione con garbo e con un certo tatto in maniera da dribblare facili dicotomie, sicché una volta piantati gli assunti su un territorio realistico l’opera si ingemma attraverso svolte immaginifiche che proiettano il protagonista e gli altri compari in una dimensione che galleggia sull’inverosimile, ciò crea un’opposizione tra concretezza e astrazione che, pur passando in sordina durante la visione, si staglia come un notevole punto di forza della pellicola.

Khatami non inventa nulla perché l’America Latina è da almeno mezzo secolo che sia in campo letterario che, più recentemente, in quello cinematografico (di esempi, anche in questo blog, ce ne sono davvero tanti) ha dato vita ad indimenticabili manufatti dove la surrealtà ha pian piano invaso la grettezza del tangibile, si può affermare allora che il debuttante autore iraniano si sia ben adattato al mood locale poiché nel film è piuttosto facile imbattersi in momenti alquanto ispirati. Alla base si rintraccia una metafora-persona (il custode) leggibile come grande memoria collettiva, la Memoria del Paese se vogliamo, che, vessata dalle milizie (bella la scena dell’irruzione celata dal vetro zigrinato), deve subire l’onta della violenza e dell’imposizione, a cascata fioriscono intorno all’anziano signore eventi che probabilmente si fanno simbolo di ben più densi significati, è il caso delle balene che forse sono un po’ la traslazione animale dei desaparecidos, non stupisce dunque l’orecchino della ragazza che ha la forma del cetaceo al pari del disegno che campeggia sulla casa della madre in cerca della figlia, se starete di nuovo perfidamente pensando “oh no, un’altra ostentazione di tronfie allegorie”, be’, ci andrei cauto perché Oblivion Verses possiede un dignitoso equilibrio pur proponendo parallelismi abbastanza lampanti, e poi quando si prende delle licenze poetiche lo fa con classe, si veda, e si ri-veda, la resurrezione del custode che è una scena a dir poco encomiabile (chi comanda vuole dimenticare [/murare], chi resiste deve ricordare), o l’istantanea in b/n dello specchietto retrovisore che non riesco a capire a fondo ma che comunque mi ha affascinato. Per concludere: un film che mantiene una condotta lontana dall’enfasi, composto nel dispiegarsi e rispettoso nell’approcciare un tema delicato, ma dotato di pennellate ravvivanti che intiepidiranno il vostro cuore spettatoriale.
Presentato a Venezia ’74 nella sezione orizzonti dove ha vinto il premio per la migliore sceneggiatura.

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