Prima di
ogni possibile riflessione, trovo intrigante il ponte geografico
eretto da Alireza Khatami che collega due realtà diverse per quanto
riguarda la loro collocazione sulla cartina, ma che, come il regista
spiega tra le righe, hanno un denominatore in comune che le unisce in
modo fattuale, ne consegue allora che il link non si rifà solo alla
geografia, c’è di più, c’è la Storia, una politica,
un’umanità, la Morte e la dirimpettaia di sempre. Abbiamo sullo
schermo un luogo indefinito, che è in Sud America (Cile?
Argentina?) come potrebbe essere in un ovunque dove il potere
coincide con la sopraffazione militare, ergo: ecco profilarsi l’Iran
del regista, così, la vicenda effigiata in un formato dagli angoli
arrotondati, diventa una pagina aperta in cui si può leggere un
piccolo grande racconto universale nel quale le componenti sono
potenzialmente intercambiabili con altre diverse e, ovviamente,
uguali. So cosa starete malignamente pensando, “oh no, Los
Versos del Olvido (2017) è l’ennesimo film che vuole
stigmatizzare i carnefici e santificare le vittime”, però per il
sottoscritto le cose non sono propriamente tali, l’opera non è il
protocollo di un’agiografia degli innocenti, diciamo che Khatami
inquadra la situazione con garbo e con un certo tatto in maniera da
dribblare facili dicotomie, sicché una volta piantati gli assunti su
un territorio realistico l’opera si ingemma attraverso svolte
immaginifiche che proiettano il protagonista e gli altri compari in
una dimensione che galleggia sull’inverosimile, ciò crea
un’opposizione tra concretezza e astrazione che, pur passando in
sordina durante la visione, si staglia come un notevole punto di
forza della pellicola.
Khatami non
inventa nulla perché l’America Latina è da almeno mezzo secolo
che sia in campo letterario che, più recentemente, in quello
cinematografico (di esempi, anche in questo blog, ce ne sono davvero
tanti) ha dato vita ad indimenticabili manufatti dove la surrealtà
ha pian piano invaso la grettezza del tangibile, si può affermare
allora che il debuttante autore iraniano si sia ben adattato al mood
locale poiché nel film è piuttosto facile imbattersi in momenti
alquanto ispirati. Alla base si rintraccia una metafora-persona (il
custode) leggibile come grande memoria collettiva, la Memoria del Paese se
vogliamo, che, vessata dalle milizie (bella la scena dell’irruzione
celata dal vetro zigrinato), deve subire l’onta della violenza e
dell’imposizione, a cascata fioriscono intorno all’anziano
signore eventi che probabilmente si fanno simbolo di ben più densi
significati, è il caso delle balene che forse sono un po’ la
traslazione animale dei desaparecidos, non stupisce dunque l’orecchino della
ragazza che ha la forma del cetaceo al pari del disegno che campeggia
sulla casa della madre in cerca della figlia, se starete di nuovo
perfidamente pensando “oh no, un’altra ostentazione di tronfie
allegorie”, be’, ci andrei cauto perché Oblivion Verses
possiede un dignitoso equilibrio
pur proponendo parallelismi abbastanza lampanti, e poi quando si
prende delle licenze poetiche lo fa con classe, si veda, e si
ri-veda, la resurrezione del custode che è una scena a dir poco
encomiabile (chi comanda vuole dimenticare [/murare], chi resiste
deve ricordare), o l’istantanea in b/n dello specchietto
retrovisore che non riesco a capire a fondo ma che comunque mi ha
affascinato. Per concludere: un film che mantiene una condotta
lontana dall’enfasi, composto nel dispiegarsi e rispettoso
nell’approcciare un tema delicato, ma dotato di pennellate
ravvivanti che intiepidiranno il vostro cuore spettatoriale.
Presentato a Venezia ’74 nella sezione orizzonti dove ha vinto il
premio per la migliore sceneggiatura.
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