mercoledì 27 maggio 2009

Fata Morgana

Primo contatto tra il continente nero e quello che Ghezzi definisce il più meticoloso fino a sfiorare l’autobiografia fra tutti i viaggiatori africani del cinema: Werner Herzog.
Il titolo si rifà ad una illusione ottica in cui un’immagine posta in lontananza appare come sollevata dal suolo in seguito alla particolare distribuzione dell’indice di rifrazione del sole in diversi strati d’aria. E questo miraggio ritorna più volte durante i tre capitoli che compongono il film: La creazione, Il paradiso e L’età dell’oro.
Inizialmente Herzog concepì il film come una pellicola fantascientifica dove degli extraterrestri atterravano sulla terra e la esploravano. Accantonata l’idea, che verrà ripresa in parte nel 2005 con L’ignoto spazio profondo, il film costò due anni di lavoro al regista durante i quali fu anche arrestato in Camerun.

La struttura dell’opera è semplice: una voce extradiegetica accompagna le immagini sullo schermo che con l’avvicendarsi dei capitoli presentano progressivamente i segni tangibili dell’uomo.
Ma a differenza di un impianto lineare, Fata Morgana è quanto di più obliquo ci possa essere. Ha le vesti di un documentario, ma nel senso stretto del termine non ha alcun scopo informativo, scientifico o divulgativo. Herzog “distrugge” il codice cinematografico fin dai primi secondi con quell’aereo che atterra sulla pista una decina di volte consecutivamente, inoltre annienta la narrazione che non ha una sua identità ma si avverte come un susseguirsi di frasi astratte dalla realtà e in alcuni frangenti asettiche al contesto. Ne La creazione vengono spesso citate divinità Maya, ma le immagini mostrano deserti infuocati e carcasse di animali, c’è come una scollatura, sicuramente voluta, fra la narratio e l’ambiente ripreso. Il disorientamento prosegue ne Il paradiso dove l’uomo comincia ad occupare lo spazio e a reclamare il SUO spazio in cui non c’è più posto per gli animali che sono uccisi (una volpe bianca nelle mani di un bambino) o controllati (uno scienziato si chiede come possa sopravvivere un varano nel deserto). Sulle note di Leonard Cohen veniamo trascinati ne L’età dell’oro: se le riprese fino a quel momento sono sempre in movimento con una camera-car che scorre lungo villaggi disabitati e dune desertiche, ora si fermano in una stanza dove un improbabile duo suona una canzoncina spagnola, a questo punto l’uomo sembra avere il controllo del pianeta: coltiva le piante, conosce la biologia di una tartaruga, esulta per la pace.

Un film dove il messaggio forse si perde nel suo andamento onirico, mistico, quasi ascetico. Ma a distanza di circa quarant’anni possiede ancora un certo appeal.

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