venerdì 1 maggio 2009

Real Fiction

Realtà:
Un giovane ritrattista di strada viene disprezzato dai passanti e vessato da un gruppo di malviventi. Un giorno appare una ragazza che lo riprende da vicino con una telecamera. Si mette in posa per un ritratto ma non avendo i soldi per pagare offre in cambio al giovane qualcosa di molto prezioso. La segue così in un teatro dove va in scena uno spettacolo dal nome emblematico: Altro me. Sul palco un uomo misterioso sembra conoscere molto sul passato del ragazzo, sul suo presente e sul suo futuro. Il giovane artista esce dal teatro e inizia una vendetta silenziosa. Infilza con la punta di una matita una cliente che gli aveva stracciato il ritratto, becca la sua fidanzata fioraia con un altro e la uccide ricoprendola di fiori, chiude la testa di un suo vecchio amico che gli aveva fregato la ragazza in un sacchetto contenente un serpente, fracassa a colpi d’estintore un poliziotto che tempo prima l’aveva torturato, rinchiude nella cella frigorifera il militare, ora macellaio, che gli aveva provocato la ferita sul collo, ammazza a pistolettate i tre aguzzini che lo tormentavano in strada.

Finzione:
La donna con la telecamera lo ha seguito come un’ombra nella sua rivalsa. Ma stufo di essere continuamente ripreso la strangola per poi rifugiarsi nell’atelier di una pittrice dove si addormenta in un angolo.
Uno stacco ed ecco che il giovane ritrattista ritorna in strada a fare il suo lavoro. Appaiono nuovamente i tre delinquenti che molestano un venditore di bambole, quest’ultimo reagisce e accoltella uno di essi. Scatta un parapiglia, poi c’è una dissolvenza. Ritorna la stessa scena, una voce fuori campo urla “stop”. Il set si popola velocemente di persone. Fine.

Realtà e finzione, oppure era il contrario?
Il Kim Ki-duk più sperimentale compie un autoriflessione sul mondo del cinema creando una “fiction” che riflette su se stessa senza smettere di essere “fiction” (discorso, questo, toccato in qualche modo anche da molti registi illustri, vedi INLAND EMPIRE, 2006 e Storie, 2000). E come Lynch, Kim utilizza il digitale legittimando la dimensione di realtà, ma rendendo più scadente la fotografia che risulta ai minimi storici nella carriera del regista a pari (im)merito con Wild Animals (1997).
Real Fiction (film al quale, tra l’altro, Kim tiene molto) è stato girato in 200 minuti con un sacco di videocamere e cineprese che immortalano da vicino il protagonista nel suo percorso di vendetta, protagonista che appare come una figura embrionale di Bad Guy (2001): stessa rabbia, stesso sguardo chino, stessa cicatrice.
Un po’ maldestro l’incontro, dal lynchiano sapore, con la propria coscienza nel teatro, però abbastanza innovativo come punto d’inizio per il dipanarsi della vicenda.
Credo che ogni volta in cui si presenta una situazione di “film nel film” i primi a perderci sono gli spettatori perché un discorso del genere lo sento più appannaggio del regista o di chi comunque utilizza i ferri del mestiere. Resta comunque della “roba” fuori dagli schemi che possiede un certo tipo di fascino.

Un po’ al pari di Vero come la finzione (2006), l’autore si chiede cosa accadrebbe se il personaggio da lui plasmato prendesse vita propria, Kim sembra avere le idee chiare: il regista verrebbe ucciso dalla sua creatura.
Non male, più interessante come racconta, che il cosa.

Nessun commento:

Posta un commento