Ma The Absence of Apricots (2018) non è solo documentario, attraverso un procedimento non troppo lontano da alcuni allestimenti folkloristici di Peter Brosens e Jessica Woodworth (cfr. Khadak, 2006), Asadi Faezi innesta alla testimonianza diretta una storia che attinge al fiabesco con un cacciatore di stambecchi che emerge dalla superficie lacustre ed una fata sapiente che lo guida nell’erto percorso. La complementarietà delle due visioni è un dato probabilmente riscontrabile, di evidente stonature non ne ho ravvisate quindi nel globale le cose scorrono in maniera accettabile, resta comunque aperta quella che il sottoscritto considera una ferita, ovvero la scelta di intensificare così marcatamente il girato sottostimando le potenzialità del reale che, a priori, contiene già qualunque racconto possibile o impossibile che verrà dopo. Ad ogni modo capisco (e accetto) il senso di un film del genere, senza fare troppo le pulci alla sezione favolistica che forse non ce n’è nemmeno bisogno, The Absence of Apricots ha valore nel suo mettere a conoscenza l’ignaro spettatore a proposito di un luogo (e dei suoi residenti) dimenticato da qualsiasi divinità, quando il cinema apre porte su ciò che è sconosciuto non si può mai parlare di tempo sprecato.
Postilla: tempo dopo la visione del doc in oggetto ho messo gli occhi sulla riedizione del 2020 di Afghanistan Picture Show: ovvero, come ho salvato il mondo proposta da minimum fax. Ebbene, nelle pagine-diario di un giovane Vollmann intento a recarsi in Afghanistan per fronteggiare i russi, ci sono lunghe e attente descrizioni dei brulli ambienti circostanti, praticamente i medesimi ripresi da Asadi Faezi. Un giudizio sintetico sul libro? Non il miglior Vollmann ma, signore e signori, è pur sempre Vollmann e va obbligatoriamente letto.
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