martedì 21 febbraio 2023

The Burning Buddha Man

Il regista giapponese Ujicha (nei crediti del film è scritto con un trattino: Uji-cha) propone al pubblico occidentale una storia che fa rima con “percorso di deificazione”. Uè, con calma, prima di scomodare le alte sfere meglio chiarire la natura di Moeru butsuzô ningen (2013) che è molto artigianale, la tecnica utilizzata pare si chiami gekianimation e può essere sintetizzata in poche parole (sicuramente proferite da uno che ha zero voce capitolo nell’area animata): cartoncini disegnati e mossi a mano all’interno di fondali statici, ad ogni cambio inquadratura c’è un cambio del cartoncino, ergo: un uomo sta dormendo e ovviamente ha gli occhi chiusi, stacco, e nella ripresa successiva ci sarà sempre lui ma con gli occhi aperti. Ecco, chiedendo scusa a Ujicha per la spiegazione poco professionale, meglio concentrarci sul tragitto di glorificazione sopra menzionato, il sentore è che ci manchino delle basi culturali per comprendere appieno (nonché artistiche, purtroppo non bazzico questo settore dell’estremo oriente), ma amen: in modo spiccio riporto la principale suggestione che ho percepito: Shin’ya Tsukamoto, non il ferro, non il metallo, bensì le statue, per effettuare un upgrade esistenziale è necessario fondersi con le rappresentazioni terrene del Buddha. Tale tendenza raccoglie un certo immaginario nipponico che fin da bambini abbiamo interiorizzato (una disposizione dragonballiana [la fusione tra copri diversi e la dimensione parallela dove il tempo scorre più lentamente] ed anche powerangersiano [l’assemblaggio di un super-guerriero]) e che schematizza, seppur qui con qualche giravolta iniziale, la lotta del bene contro il male.

Le due fazioni non sono mai così nette perché a differenza delle narrazioni standard qui i personaggi, a prescindere dalla squadra a cui appartengono, sono tutti degli esseri mostruosi, il bestiario weird-fantastico, oltre a confondere un po’ le idee allo spettatore per via delle innumerevoli trasformazioni che si susseguono, è il protagonista di uno scenario quasi da b-movie, gli scontri non lesinano squartamenti e la ripetuta emissione di schifosi flussi gastrici, ciò aiuta a incrementare il tasso di bizzarria oltre che a rendere le cose abbastanza divertenti se non fosse che... be’, volete che non ci sia un rovescio dell’arcinota medaglia? Ora, giudicare il lavoro di un artista, peraltro giovane, da dietro una tastiera senza avere minimamente idea della trafila creativa che modella il prodotto finito è facile e il rischio è di peccare in superficialità, ma il destino vuole che il cosiddetto “giudicatore”, annoiato dal presente e spaventato dal futuro, è anche l’ultimo anello della catena, è il fruitore, colui che riceve il manufatto pronto e impacchettato per l’uso. Ebbene, se devo essere sincero, e non vedo motivi per non esserlo, il tipo di animazione impiegato, la gekianimation, mi ha letteralmente ammazzato la visione: è tutto impalato, macchinoso, inerte, è l’antitesi di una fluidità che nell’animazione dovrebbe trovare residenza. Il condizionale è indispensabile perché non ho la verità in tasca e per fortuna le metodologie realizzative sono infinite, però, giusto ad esempio, se per accentuare gli stati d’animo dei soggetti in scena si affibbiano delle espressioni ridicole, il risultato, se posto in un contesto già pesante da digerire, non potrà che inasprire l’impressione di avere a che fare con un film difettoso.

Forse un approccio del genere potrebbe andare bene per un cortometraggio dove una durata ridotta medica la farraginosa impostazione, ma sulla lunga distanza non ce la fa a reggere il peso dei novanta minuti. Ad ogni modo, visto che ognuno di noi merita una seconda chance e visto che a volte imbocco strade masochistiche, visionerò anche Violence Voyager (2018), metti caso che mi converto alla gekianimation...

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