martedì 3 novembre 2020

Chrieg

La storia è quella di Matteo, un adolescente problematico che abita da qualche parte in Svizzera, e del tentativo paterno di riportarlo sulla retta via (sebbene lui sia il primo a non percorrerla) spedendolo in un campo estivo tra le montagne. L’esordiente Simon Jaquemet inquadra la complessità personale del protagonista con un venti-venticinque minuti più che altro illustrativi, né urticanti (o almeno non troppo) né illuminanti (e figuriamoci), in sintesi viene delineata a suon di rapidi episodi la figura di un ragazzino come tanti, ribelle (il look), anaffettivo (la prostituta) ma non del tutto (culla il fratellino tra le braccia chiedendogli se saranno amici da grandi), in aspro conflitto con la realtà domestica circostante. È uno scenario evidente corroborato dalla scelta attoriale quasi seidliana di far interpretare i genitori a due soggetti opposti (un’obesa ed un palestrato) che di certo non esalano armonia e felicità, ma è, comunque, un preambolo che si poggia su premesse narrative già conosciute, lo strato psicologico è pericolosamente gracile e si sente subordinato alla necessità di dare un’eziologia al percorso dissoluto del Matteo che verrà. Difficoltà di scrittura perché far sì che una pellicola abbia una componente testuale convincente, o almeno non eccessivamente vulnerabile (si richiama l’episodio della squillo: forzato assai), è impresa tosta, pressoché impossibile se si tende a guardare tutt’altra tipologia di cinema.

Comunque proseguendo Chrieg (2014) mette sul piatto il suo nucleo concettuale che riguarda l’esposizione di una rabbia giovane e cieca per mano di tre cani sciolti che non hanno nulla da perdere, ad esclusione di un rifugio tra le vette. Anche qua analizzando scena per scena non c’è da rallegrarsi, la penna di Jaquemet, ammiratore di Clark e Korine, offre il fianco ad obiezioni di natura descrittiva, è un po’ banale il modo con cui Matteo è accettato dal gruppetto attraverso la prova di coraggio ed è altrettanto discutibile la costruzione del blitz vendicativo nei riguardi del papà (mmm a proposito della volontà di buttare d’improvviso Ali per strada e mmm sul fatto che guarda caso venga selezionata proprio lei). È che, in buona sostanza, le sceneggiature (e le sceneggiate) razionali non dovrebbero avere così spazio nella settima arte visto che esse, lo spazio, inteso come luogo del sentibile, se lo divorano piantando la bandiera della leggibilità, discorso vecchio che val la pena ribadire: Chrieg e similari sottolineando a tutto spiano l’idea di una violenza trasversale, di un mondo nichilista, di una gioventù senza speranza, finiscono per non andare un passo oltre la ricezione delle informazioni. La drammatica vicenda di Matteo non scende e men che meno fende pur mantenendosi “godibile” per l’intera durata, perché film del genere, nonostante il loro essere abbastanza disallineati, si assestano in una velata comfort zone inconsciamente rassicurante (la lieve iniezione sentimentale ne è un sintomo) dove il grado di predizione è sempre elevato, e non si tratta di sapere cosa accadrà ma che accadrà qualcosa perché il racconto lo impone.

Nulla si vuole togliere al regista Jaquemet che dimostra un impeto e una forma vicina ad un possibile significato di reale che non va respinto, in più, avvalendosi di attori non professionisti (solo Ali lo è), il tasso di verità all’interno di un contesto che rimane esclusivamente finzionale conserva una credibilità accettabile. Però c’è poco da aggiungere, i risvolti semi-positivi sono piccoli palliativi che non debellano una malattia più grande di Jaquemet stesso, non si uccide un sistema normativo ma almeno lo si può combattere, e quella sì che è una guerra interessante.

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