mercoledì 25 novembre 2020

El Perdido

Non è certo una novità registrare quanto Christophe Farnarier sia a suo agio in location naturali, nella sua filmografia, ad esclusione di The First Rasta (2010) ma quella era un’altra cosa, ogni opera ha un’attenzione mirata verso la cornice ambientale e, con immediato esito, anche di chi la abita, sempre personaggi piuttosto lontani da quella che definiremmo “normale” umanità. È facile vedere ne El Perdido (2016) e nel suo barbuto protagonista la continuazione di un filato cinematografico iniziato con il simpatico pastore di El somni (2008) e proseguito con la tenace mamma-contadina de La primavera (2012), cambiano gli interpreti, forse anche i fini concettuali, ma non troppo il risultato globale: qui abbiamo un uomo che di sua spontanea volontà si allontana dal mondo civilizzato e che inizia a vivere su delle zone montuose in cui il tempo è inevitabilmente scandito dal passare delle stagioni. Quindi da un lato abbiamo una chiara persistenza tematica, dall’altro si deve annotare un cambio di approccio, è una mutazione pressoché invisibile perché le basi di Farnarier restano pur sempre documentaristiche ma, a conti fatti, El Perdido non è affatto un documentario, c’è una fonte concreta che ha fatto da soggetto (negli anni ’90 un tipo dalle parti di Girona si rifugiò nella selva circostante) e c’è la correlata elaborazione sceneggiaturiale in cui il regista si è avvalso dell’aiuto dei fratelli Daniel e Pablo Remón, chiaro che non siamo in presenza di un’effettiva finzione (solo l’inizio con il Nostro seduto sotto l’albero col fucile porta in tale direzione, e infatti è un passaggio esplicativo che si poteva evitare) ed è altrettanto chiaro che il vincolo sul reale è meno puro di quanto possa apparire. Nulla di male, basta riconoscerlo.

Non mi sento di vendervi El Perdido come un film innovativo, di opere mute che però vogliono o almeno provano a dire comunque qualcosa ce ne sono e ce ne saranno a iosa, e non è nemmeno un lavoro che tocca chissà quali profondità, anzi la lettura del tutto è piuttosto semplice, il che, ad ogni modo, non deve essere considerato in maniera negativa, al contrario: l’idea che Farnarier ci propone è quella di una persona che ha deciso di sottrarsi alla modernità e così avviene: il percorso eremitico del ragazzo (attore non professionista e vicino di casa di Christophe) è privo di particolari sussulti, le attività svolte per la sopravvivenza rientrano nel ventaglio di azioni pronosticabili per chi è implicato in situazioni del genere, però le capacità di chi imbraccia la mdp fanno sì che il fluire delle cose abbia una grazia ammirabile a prescindere da ripetizioni e momenti vuoti. La pronta conseguenza è che questo tizio perso nei boschi è assolutamente credibile e la sua condizione di estraneità da contesti urbani, contemporanei e sociali non viene mai meno, si noti, ad esempio, che le uniche connessioni emotive che riesce ad instaurare sono con una civetta e con un cane smarrito come lui, o, per elogiare un dettaglio, occhio al giornale che legge dal titolo “actualidad” sebbene sia presumibilmente una rivista di molti anni addietro.

Dissiparsi, fuggire, scomparire, il quadro di Farnarier è composto da tali elementi rintracciabili in una austerità adagiata sulle frequenze paesaggistiche che nel finale si concede due inaspettate licenze poetiche, mi riferisco ad un dolce ingresso musicale che accompagna il precipitoso ripiegamento in bicicletta, e soprattutto all’unica finestra che si affaccia su un possibile oltre, al di là della realtà, nel tremolante riflesso sull’acqua di due corpi nudi avvinghiati, l’ipotetica proiezione di un sogno, di una fantasia che sta come a dire: anche se ci allontaniamo dall’Uomo il desiderio di calore, di prossimità verso i propri simili non svanisce mai.

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