giovedì 5 novembre 2020

Nomad - In cammino con Bruce Chatwin

Siamo, contando anche cortometraggi e opere per la tv, verso il settantesimo film di Werner Herzog, eppure questo attempato signore nato a Monaco nel 1942 non ha ancora perso la voglia di viaggiare, perché il viaggio per lui è sempre stata la scintilla capace di mettere in moto tutte le sue visioni cinematografiche, ed uno spirito così inquieto non stupisce che in passato abbia trovato prossimità (non so se si può chiamare amicizia) con un suo simile, un altro viaggiatore folle e instancabile, Bruce Chatwin, scrittore britannico morto nel 1989 per AIDS. Così, appena un anno dopo Herzog incontra Gorbaciov (2018), il buon Werner firma nuovamente un tributo ad una figura verso cui prova grande ammirazione e con cui condivide un substrato di ideali oltre ad una similare comprensione del mondo. Nomad: In the Footsteps of Bruce Chatwin (2019) è fedele alla concisione del titolo, Herzog ripercorre dopo svariati anni le orme di Chatwin in un tragitto romanticamente fatto a piedi (entrambi si sono trovati sulla bellezza del camminare) che unisce luoghi il più distante possibile tra loro come la Patagonia, raggiunta per un’avventura archeologica sulle tracce di un mostro preistorico e l’Australia, teatro di una ricerca su delle canzoni intonate dagli aborigeni per misurare gli spostamenti nel deserto, e il tedesco segue a sua volta queste piste antropologiche e spirituali, intervista, riprende, si confronta, cerca di cogliere l’essenza sfuggente dell’alterità. È una sorta di sentita elegia dove capiamo, e forse anche il regista medesimo capisce, di quanto Chatwin ci sia in Herzog e viceversa. Bello l’aneddoto relativo ad una scena che anche io ricordo molto bene in Segni di vita (1968) e ugualmente bella l’immagine che ci viene data dello scrittore in punto di morte scosso da una ritrovata vitalità dopo aver assistito a qualche minuto di Wodaabe (1989).

All’innegabile e conclamato omaggio verso Chatwin si aggiunge poi ciò che potremmo considerare un bonus, un di più che certifica l’intreccio delle ambedue incredibili vite accennato poc’anzi. Succede questo: che Herzog parlando dello scrittore finisce inevitabilmente per parlare di sé, e lo fa nonostante egli ammetta di non voler essere il protagonista del documentario che sta girando, però il suo trascorso emerge e noi assistiamo ad una cavalcata che ci riporta indietro nel tempo, a Dove sognano le formiche verdi (1984), a Cobra Verde (1987) o a Grido di pietra (1991) il cui racconto di sopravvivenza estrema (con lo zaino che fu proprio di Chatwin) è più avvincente della pellicola stessa. Nomad diviene perciò (anche) un’autocelebrazione, ma di quelle che non pesano perché mimetizzata e intessuta in una dedica più ampia da dove traspare una certa sincerità (superiore, per fare uno stupido paragone, a quella nei riguardi di Gorbačëv). Herzog ad un certo momento abbandona la flemma teutonica e si asciuga una lacrima impercettibile con il dorso della mano, in quel piccolo gesto ho visto e rivisto l’umanità che ha sempre tentato di scovare negli angoli più dispersi della Terra, come se ci fosse bisogno di uno specchio divergente per capirsi, che poi, a mio modesto parere, è ciò che si può definire l’anima del viaggio: incontrare l’altro per incontrare se stessi, e nella duplice veduta Herzog-Chatwin ne abbiamo un valido esempio, talmente valido che lo ritengo il miglior doc della casa da Cave of Forgotten Dreams (2010) in avanti.

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