
Siamo,
contando anche cortometraggi e opere per la tv, verso il settantesimo
film di Werner Herzog, eppure questo attempato signore nato a Monaco
nel 1942 non ha ancora perso la voglia di viaggiare, perché il
viaggio per lui è sempre stata la scintilla capace di mettere in
moto tutte le sue visioni cinematografiche, ed uno spirito così
inquieto non stupisce che in passato abbia trovato prossimità (non
so se si può chiamare amicizia) con un suo simile, un altro
viaggiatore folle e instancabile, Bruce Chatwin, scrittore britannico
morto nel 1989 per AIDS. Così, appena un anno dopo
Herzog incontra Gorbaciov (2018), il
buon Werner firma nuovamente un tributo ad una figura verso cui prova
grande ammirazione e con cui condivide un substrato di ideali oltre
ad una similare comprensione del mondo. Nomad: In the
Footsteps of Bruce Chatwin
(2019) è fedele alla concisione del titolo, Herzog ripercorre dopo
svariati anni le orme di Chatwin in un tragitto romanticamente fatto
a piedi (entrambi si sono trovati sulla bellezza del camminare) che
unisce luoghi il più distante possibile tra loro come la Patagonia,
raggiunta per un’avventura archeologica sulle tracce di un mostro
preistorico e l’Australia, teatro di una ricerca su delle canzoni
intonate dagli aborigeni per misurare gli spostamenti nel deserto, e
il tedesco segue a sua volta queste piste antropologiche e
spirituali, intervista, riprende, si confronta, cerca di cogliere
l’essenza sfuggente dell’alterità. È una sorta di sentita
elegia dove capiamo, e forse anche il regista medesimo capisce, di
quanto Chatwin ci sia in Herzog e viceversa. Bello l’aneddoto
relativo ad una scena che anche io ricordo molto bene in Segni di vita (1968) e ugualmente
bella l’immagine che ci viene data dello scrittore in punto di
morte scosso da una ritrovata vitalità dopo aver assistito a qualche
minuto di Wodaabe
(1989).
All’innegabile
e conclamato omaggio verso Chatwin si aggiunge poi ciò che potremmo
considerare un bonus, un di più che certifica l’intreccio delle
ambedue incredibili vite accennato poc’anzi. Succede questo: che
Herzog parlando dello scrittore finisce inevitabilmente per parlare
di sé, e lo fa nonostante egli ammetta di non voler essere il
protagonista del documentario che sta girando, però il suo trascorso
emerge e noi assistiamo ad una cavalcata che ci riporta indietro nel
tempo, a Dove sognano le formiche verdi
(1984), a Cobra Verde
(1987) o a Grido di pietra
(1991) il cui racconto di sopravvivenza estrema (con lo zaino che fu
proprio di Chatwin) è più avvincente della pellicola stessa. Nomad
diviene perciò (anche) un’autocelebrazione, ma di quelle che non
pesano perché mimetizzata e intessuta in una dedica più ampia da
dove traspare una certa sincerità (superiore, per fare uno stupido
paragone, a quella nei riguardi di Gorbačëv). Herzog ad un certo
momento abbandona la flemma teutonica e si asciuga una lacrima
impercettibile con il dorso della mano, in quel piccolo gesto ho
visto e rivisto l’umanità che ha sempre tentato di scovare negli
angoli più dispersi della Terra, come se ci fosse bisogno di uno
specchio divergente per capirsi, che poi, a mio modesto parere, è
ciò che si può definire l’anima del viaggio: incontrare l’altro
per incontrare se stessi, e nella duplice veduta Herzog-Chatwin ne
abbiamo un valido esempio, talmente valido che lo ritengo il miglior
doc della casa da Cave of Forgotten Dreams
(2010) in avanti.
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