domenica 29 novembre 2020

Il primo giorno d’inverno

Ho pensato fosse (filo)logico andare a ripescare anche l’opera prima di Mirko Locatelli (che comunque si era già impegnato in alcuni documentari), questo Il primo giorno d’inverno (2008), presentato a Venezia ’08, si rivela un bersaglio facile come ogni debutto che si rispetti, il settore che presenta le maggiori criticità è quello attoriale ed è fin superfluo rimarcare come gli interpreti, e in particolare il protagonista, non traducano sullo schermo in modo convincente le tensioni e i sentimenti che il film vorrebbe esprimere. I problemi si acuiscono soprattutto durante gli scambi dialogici, ma questo è un difetto che si avverte anche in opere di registi ben più rodati (idem nella letteratura, la gestione dei dialoghi richiede molto lavoro), se si utilizza un taglio realistico non è semplice donare verità ad una conversazione, è sempre alto il rischio di irrigidire le varie situazioni, di accentuare un tasso di finzione, di plastificazione, l’esatto contrario di ciò che in teoria si perseguirebbe. Qui i momenti più fragili si verificano quando Valerio è costretto a cambiare atteggiamento verso i suoi compagni di nuoto, il passaggio da ragazzo timido e introverso a gelido ricattatore regge ben poco, anche perché poi fanno seguito diverse scene tra i tre coetanei (che vorrebbero essere concitate) proprio bruttine, finte, troppo lontane dalla soglia dell’accettabilità. Casualmente una tale riflessione sull’attorialità si riproporrà anche in Isabelle (2018) dove Locatelli utilizzerà un altro attore con poca esperienza alle spalle, il che, per paradosso, spiccherà in maniera superiore rispetto a Il primo giorno d’inverno in quanto nella pellicola d’esordio tutto il cast è allo stesso livello.

Con il tot di alibi che si può dare ad un trentaquattrenne Locatelli, è possibile anche riconoscergli un’apprezzabile tentativo di ritratto adolescenziale in un contesto semi-agreste. Fedele alla linea che caratterizzerà i film successivi, il regista milanese preferisce operare per sottrazione badando all’asciuttezza piuttosto che alla sovraesposizione, inoltre si prende i suoi tempi che non coincidono col cinema da sala e fa affidamento a delle immagini ricorsive per descrivere senza didascalie: Valerio sulla motoretta, Valerio che si specchia, Valerio a tavola con mamma e sorella, Valerio che fa esercizi ginnici in camera; la temperatura del suo personaggio ci è data così e così, dunque, lo percepiamo: molto solo, in cerca di un’identità, chiuso in se stesso, rancoroso. Nel futuro Locatelli svilupperà meglio questa tendenza a “non dire”, ma è interessante scorgerne già i prodromi, e se lo si vuole possiamo anche lanciarci in una caccia al tesoro dei potenziali segnali d’autore che si manifesteranno nei lungometraggi a venire, ad essere onesti non ci sono agganci granché evidenti, il massimo che ho annotato è un lievissimo richiamo alla religione (il film si apre con Michela che battezza un coniglietto e sempre Michela ha un ruolo di spicco nella recita scolastica) che poi aleggerà ne I corpi estranei (2013) ed il finale legato ad un incidente automobilistico che implica una specie di senso di colpa, in Isabelle sarà il moto sotterraneo della storia, qua è impiegato come dispositivo drammatico per far raggiungere al racconto l’apice della tragedia.

Visto che Locatelli, finora, ha fatto un film ogni cinque anni, adesso aspettiamoci il prossimo nel 2023, io, comunque, credo che varrà la pena buttarci un occhio.

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