Con il tot di alibi che si può dare ad un trentaquattrenne Locatelli, è possibile anche riconoscergli un’apprezzabile tentativo di ritratto adolescenziale in un contesto semi-agreste. Fedele alla linea che caratterizzerà i film successivi, il regista milanese preferisce operare per sottrazione badando all’asciuttezza piuttosto che alla sovraesposizione, inoltre si prende i suoi tempi che non coincidono col cinema da sala e fa affidamento a delle immagini ricorsive per descrivere senza didascalie: Valerio sulla motoretta, Valerio che si specchia, Valerio a tavola con mamma e sorella, Valerio che fa esercizi ginnici in camera; la temperatura del suo personaggio ci è data così e così, dunque, lo percepiamo: molto solo, in cerca di un’identità, chiuso in se stesso, rancoroso. Nel futuro Locatelli svilupperà meglio questa tendenza a “non dire”, ma è interessante scorgerne già i prodromi, e se lo si vuole possiamo anche lanciarci in una caccia al tesoro dei potenziali segnali d’autore che si manifesteranno nei lungometraggi a venire, ad essere onesti non ci sono agganci granché evidenti, il massimo che ho annotato è un lievissimo richiamo alla religione (il film si apre con Michela che battezza un coniglietto e sempre Michela ha un ruolo di spicco nella recita scolastica) che poi aleggerà ne I corpi estranei (2013) ed il finale legato ad un incidente automobilistico che implica una specie di senso di colpa, in Isabelle sarà il moto sotterraneo della storia, qua è impiegato come dispositivo drammatico per far raggiungere al racconto l’apice della tragedia.
Visto che Locatelli, finora, ha fatto un film ogni cinque anni, adesso aspettiamoci il prossimo nel 2023, io, comunque, credo che varrà la pena buttarci un occhio.
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