venerdì 18 novembre 2011

White Palms

LA VITA IN PALESTRA

Il ritratto che Szabolcs Hajdu ci dà della ginnastica a Debrecen negli anni ’80 ha in sé reminiscenze della situazione politica del periodo. Non è un allenatore quello che chiama i suoi allievi “figli”, e nemmeno un coach, lemma bandito in piena guerra fredda. No, quell’uomo con la tuta e il fischietto è un generale di pietra che attraverso le punizioni corporali impone le proprie regole, senza capire che quello è il modo migliore per far sì che non vengano interiorizzate.
La ferrea disciplina imposta ai ragazzini tramuta l’allenamento in un rituale silenzioso fuori dal mondo: in riga come soldati i piccoli atleti sono separati da tutto il resto, tanto che gli occhi dei genitori non possono vedere ciò che accade, e le coetanee sono al di là di un gigantesco sipario rosso valicato soltanto per diventare oggetto di scherno a causa di un esercizio mal fatto.
Il tutto ci viene offerto dall’autore ungherese tramite un dogmatico canale visivo iper-realista che rincorre le evoluzioni ginniche fino a far sentire il fiatone dei bambini, e forse anche il battito del loro cuore.

LA PALESTRA È VITA

Uno pensa che fuori dalla palestra le cose possano e debbano andare meglio, invece no.
White Palms (2006) oscilla fra dramma sportivo e dramma sociale rivelando una realtà ben poco confortante che si riassume nella sequenza casalinga dove Dongó, interpretato da adulto dal fratello del regista e che mai verrà chiamato per nome, viene presentato dai genitori come un piccolo arraffa-medaglie dai muscoletti pronunciati. Il mix di assenza famigliare, e severità opulente, rendono Dongó prima un bimbo in fuga, poi in bilico, e per finire un ragazzino che cade nel vuoto. L’uomo che ne esce fuori è un uomo con le ossa rotte, per certi versi ancora in fuga ma da cose a cui non può sfuggire, che contro il suo stesso volere ha interiorizzato quei modelli aberranti del vecchio allenatore, riproposti ora in Canada, segnando così un’evidente identificazione, corroborata dalla caduta, con l’insegnante-colonnello.
È una pellicola che ci parla di educazione, mettendo a confronto due diverse espressioni corrispondenti a due diversi risultati: la vittoria e la sconfitta, apogeo e perigeo della vita, forse non solo sportiva. Con questa duplice zona d’ombra da illuminare, anche il cinema si sdoppia costituendosi in un montaggio alternato fra prima e dopo precursore dell’indimenticabile climax in Bibliothèque Pascal (2010). Qui non abbiamo uno sforamento di una realtà nell’altra, ma il registro complessivo è di ottima qualità, e la morale che sgocciola giù dal finale consola un bel po’: anche perdendo si può vincere.

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