I fatti dicono che Mange, ceci est mon corps (2007) rappresenta il debutto sul grande schermo per Michelange Quay, regista nato a New York da genitori haitiani. I fatti dicono questo, tuttavia il riscontro pratico mette in evidenza una grafia cinematografica di livello superiore alla media, tanto raffinata quanto audio-visivamente sperimentale.
È un film che inizia planando (presumo che la ripresa sia stata effettuata tramite un deltaplano o simili), e perciò comincia con un arrivo, il nostro. Più o meno efficacemente si fa strada l’idea che questa pellicola prosegua attraverso antitesi, alcune sono praticamente immediate altre decisamente più sotterranee.
È un film che inizia planando (presumo che la ripresa sia stata effettuata tramite un deltaplano o simili), e perciò comincia con un arrivo, il nostro. Più o meno efficacemente si fa strada l’idea che questa pellicola prosegua attraverso antitesi, alcune sono praticamente immediate altre decisamente più sotterranee.
Salta subito all’occhio il contrasto cromatico fra bianco e nero che non riguarda solo la pelle degli attori in scena, sarebbe troppo facile se no, ma anche gli abiti e gli interni della villa (notare le camere da letto), a ciò si aggiungono le inverse figure dei personaggi che segnano opposizioni semantiche: Madame e la sua vecchia madre nel letto, il maggiordomo e il misterioso albino che si aggira nella villa. I ruoli hanno una certa intercambiabilità che viene sottolineata nella duplice scena della vasca da bagno con Sylvie Testud e il servo di colore che capovolgono in due atti il proprio status filmico.Altra contrapposizione è data dalla musica. Fuori dalla villa esplode nei canti tribali della plebe, dentro all’edificio risuona nelle corde di un pianoforte, il quale a sua volta contiene un ulteriore contrasto fra il silenzio e la melodia. Pare suggerirci qualcosa questo, che l’armonia palpita negli uomini e non negli strumenti [1], ma ciò sembra solo un fatto collaterale poiché la summa delle varie posizioni antitetiche va a ricondursi in una denuncia d’essai ecoambientalista.
La dissonanza estrema fra i due mondi qui ripresi si mostra in tutta la sua urgenza, distorsioni fra ricchezza e povertà, utopia e realtà, fra chi mangia e chi sta a guardare (scena capolavoro).
Le difficoltà di comprensione sono comunque tante e scoraggeranno chi è poco avvezzo a un tipo di cinema così. Quay si mette a fare l’autore, e probabilmente lo è, dando personalità alla pellicola attraverso l’escamotage del mutismo che se si esclude l’intenso monologo della vecchia Madre Natura pervade l’intera opera. Il tono poetico del regista si prospetta come punto di incontro fra i corridoi malinconici del Bartas anni ’90 e la chirurgica estetica di Drawing Restraint 9 (2005), le traiettorie visive si alternano, ma su tutte spicca la predilezione di Quay verso le panoramiche circolari che con il loro lento movimento svelano il campo visivo.
Se dunque Eat, for This Is My Body si caratterizza per continue opposizioni interne, anche il giudizio finale deposita sentimenti contrastanti. Pur avendo assistito ad una pellicola che nega il principio del racconto, si afferra di come il precipitato abbia grande spessore.
Un film da ri-vedere.
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[1] A onor del vero vedremo anche delle persone di colore utilizzare degli strumenti, addirittura un mixer!, “per fare musica”, perciò gli interrogativi proliferano.
Le difficoltà di comprensione sono comunque tante e scoraggeranno chi è poco avvezzo a un tipo di cinema così. Quay si mette a fare l’autore, e probabilmente lo è, dando personalità alla pellicola attraverso l’escamotage del mutismo che se si esclude l’intenso monologo della vecchia Madre Natura pervade l’intera opera. Il tono poetico del regista si prospetta come punto di incontro fra i corridoi malinconici del Bartas anni ’90 e la chirurgica estetica di Drawing Restraint 9 (2005), le traiettorie visive si alternano, ma su tutte spicca la predilezione di Quay verso le panoramiche circolari che con il loro lento movimento svelano il campo visivo.
Se dunque Eat, for This Is My Body si caratterizza per continue opposizioni interne, anche il giudizio finale deposita sentimenti contrastanti. Pur avendo assistito ad una pellicola che nega il principio del racconto, si afferra di come il precipitato abbia grande spessore.
Un film da ri-vedere.
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[1] A onor del vero vedremo anche delle persone di colore utilizzare degli strumenti, addirittura un mixer!, “per fare musica”, perciò gli interrogativi proliferano.
una roba assurda, io ho faticato parecchio ad arrivare alla fine, a capirne bene la direzione e il senso, lo confesso.
RispondiEliminae sono stato tentato di scriverne qualcosa ma, ogni volta, finivo a fissare la pagina bianca.
un piccolo applauso virtuale per te :)
senza dubbio una delle visione più "difficili" cui abbia mai assistito.
Che bravo! L'ho visto in un'atmosfera congeniale e lo rivedrei volentieri! Fa parte di quella sostanziosa quantità di film (visti e rivisti) che mi ispirerebbero uno scritto! Ripeto Bravo: te e lui! :)
RispondiEliminaCredevo di essere l'unico sulla faccia dell)a terra ad essersi assunto un tale onere filmico. I vostri interventi mi consolano molto :).
RispondiEliminaSì Einzi è un film che fa della cripticità la sua essenza, difatti ho citato quello che per ME è il film più enigmatico che abbia mai visto (DR9).
Se ci siano sensi o meno, qui sta il "nostro lavoro". Per me sì, almeno uno è quello ecologico, non è molto ma in questo caso mi accontento.
Petrolio dicci qual è l'atmosfera congeniale che siamo curiosi :)
Bravo di che? Io ho solo guardato un film...
Bravo.. nell'averne assunto (onere e piacere) e nell'aver condiviso! Congeniale: Buio e luce, straniero e fratello (l'amico era un connazionale del regista) :)
RispondiEliminaAh, Haiti! Beato lui!
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