Strano il mio rapporto con von Trier, strano il mio rapporto con chi lo critica, e con chi lo esalta.
Per sommi capi: quando un suo film è piaciuto in maniera più o meno unanime (vedi Le onde del destino, 1996), io mi sono trovato parecchio in disaccordo, quando invece ha realizzato degli aut-aut su pellicola sono passato autocoscienziosamente dalla parte dei buoni, o dei cattivi, dipende sempre da dove si guarda (vedi Antichrist, 2009).
Neanche a dirlo Melancholia (2011) ha infervorato positivamente il pubblico che affolla forum e blog vari, ossia quella che si presenta come la critica meno dotta ma più schietta, mentre a scrive è parsa come da copione una delle già conosciute masturbazioni filmiche del danese, opera bella, senz’altro, nell’accezione estetica del termine, ma coesiste (/persiste) con questa smaccata superiorità visiva una sorta di vacuità, di sfocatura, di aridità argomentativa; non tanto per poco spessore tematico, piuttosto per la vastità insita nell’intento: la fine del mondo comporta la fine di tutte quelle cose che fanno del mondo il mondo, e nel passaggio [1] della riduzione in scala (l’umanità, e quindi – anche – il mondo, miniaturizzata all’interno delle sorelle antitetiche) la pellicola si arena letteralmente, e pragmaticamente: annoia, soffocata dalla prolissità della prima parte che più che verbale definirei “registica” (l’insistenza sul metodo), uccisa dalla seconda che nonostante punti, finalmente, sull’accumulo tensiogeno, in fondo lo scheletro fantascientifico lo si deve rimpolpare, fa sì che tutto confluisca nell’immaginario predittivo.
Passi l’imponente prologo che avrà migliaia e migliaia di visualizzazioni su Youtube ma che risulta un amplificato riciclo dell’incipit rallentato di Antichrist, cambia nell’immissione del colore e, ovviamente, del materiale ripreso, non cambia l’emissione di musica classica (qui Wagner) a fare da sottofondo, e soprattutto rimane immutata la plasticità conferita ai corpi in movimento, passino dunque questi minuti che si sedimenteranno nella memoria cinefila, ciò che invece non vi starà a lungo, almeno nella mia di memoria, è la bipartizione del narrato, soprattutto il segmento della Dunst che possiede elementi di debolezza.
Intanto la panoramica umana all’interno della festa non trova nessunissima protesi nella seconda parte: perché la riottosità della Rampling? Il dongiovannismo del padre? E il capo d’azienda con l’inutile comparsata del ragazzetto messo lì giusto per istituire ufficialmente l’oscillazione planetario-umorale della protagonista? Ecco, se tutto quello che circonda Justine non è ben impaginato, la sua stessa figura fatica a trovare consensi empatici in chi la guarda, se il suo stato bordeline è dovuto all’avvicinarsi di Melancholia, o se lei stessa può essere metaforicamente vista come quella fetta d’umanità depressa di cui Lars fa parte, non pare avere incisiva rilevanza.
Il tutto è poi immortalato attraverso una linea visiva prossima alla nausea che urlando la propria cifra distintiva trova soltanto il proprio riflesso nello specchio, cosa già successa agli albori nella trilogia europea ed anche in altre opere disseminate nel curriculum trieriano che sembrano preoccuparsi più di come raccontare piuttosto di che raccontare.
La parte della Gainsbourg ha un appeal differente, e sebbene risulti troppo indipendente rispetto a quella che l’ha preceduta, ha almeno la piccola qualità di farsi seguire, semplicemente perché la strada intrapresa sembra poter aver una conclusione degna del nome, ma la speranza di una rivelazione, di un ribaltamento percettivo, viene offuscata dalla catechizzazione di Trier che incanala i significati all’interno delle due sorelle, una cocciuta ad aggrapparsi alla vita, l’altra rassegnata nel perderla. Io, in tutta onestà, non ho visto nient’altro, se non la didascalica contrapposizione fra le caratteristiche di Claire (mora, madre, “borghesizzata”) e quelle di Justine (bionda, nemmeno moglie, ribelle).
Radiato dal Festival di Cannes a causa delle sue simpatie poco raccomandabili, Lars von Trier è da sempre un malizioso accentratore d’attenzione, e pur avendo un fiuto registico fuori dal comune, è parso molte volte che il personale narcisismo non abbia dato voce a quell’amore artistico verso il cinema che egli possiede, alternando così opere stratosferiche a capitomboli prossimi alla provocazione, ma Melancholia non sembra appartenere a nessuno dei due ranghi, solo un’opera monca, inerme, anestetizzata dalla sua estetica e desertizzata dall’impalpabile emotività.
Se questo è un film disperato, la disperazione è diventata un surrogato della banalità.
Amaramente, una delusione.
_____
[1] C’è un ulteriore passaggio.
Dal pessimismo intimo e personale di Antichrist si passa a quello su vasta scala di Melancholia.
Il salto è mortale e non ha felice atterraggio, se il film precedente grondava sofferenza da ogni fotogramma, qui il guscio patinato non lascia passare niente.
Per sommi capi: quando un suo film è piaciuto in maniera più o meno unanime (vedi Le onde del destino, 1996), io mi sono trovato parecchio in disaccordo, quando invece ha realizzato degli aut-aut su pellicola sono passato autocoscienziosamente dalla parte dei buoni, o dei cattivi, dipende sempre da dove si guarda (vedi Antichrist, 2009).
Neanche a dirlo Melancholia (2011) ha infervorato positivamente il pubblico che affolla forum e blog vari, ossia quella che si presenta come la critica meno dotta ma più schietta, mentre a scrive è parsa come da copione una delle già conosciute masturbazioni filmiche del danese, opera bella, senz’altro, nell’accezione estetica del termine, ma coesiste (/persiste) con questa smaccata superiorità visiva una sorta di vacuità, di sfocatura, di aridità argomentativa; non tanto per poco spessore tematico, piuttosto per la vastità insita nell’intento: la fine del mondo comporta la fine di tutte quelle cose che fanno del mondo il mondo, e nel passaggio [1] della riduzione in scala (l’umanità, e quindi – anche – il mondo, miniaturizzata all’interno delle sorelle antitetiche) la pellicola si arena letteralmente, e pragmaticamente: annoia, soffocata dalla prolissità della prima parte che più che verbale definirei “registica” (l’insistenza sul metodo), uccisa dalla seconda che nonostante punti, finalmente, sull’accumulo tensiogeno, in fondo lo scheletro fantascientifico lo si deve rimpolpare, fa sì che tutto confluisca nell’immaginario predittivo.
Passi l’imponente prologo che avrà migliaia e migliaia di visualizzazioni su Youtube ma che risulta un amplificato riciclo dell’incipit rallentato di Antichrist, cambia nell’immissione del colore e, ovviamente, del materiale ripreso, non cambia l’emissione di musica classica (qui Wagner) a fare da sottofondo, e soprattutto rimane immutata la plasticità conferita ai corpi in movimento, passino dunque questi minuti che si sedimenteranno nella memoria cinefila, ciò che invece non vi starà a lungo, almeno nella mia di memoria, è la bipartizione del narrato, soprattutto il segmento della Dunst che possiede elementi di debolezza.
Intanto la panoramica umana all’interno della festa non trova nessunissima protesi nella seconda parte: perché la riottosità della Rampling? Il dongiovannismo del padre? E il capo d’azienda con l’inutile comparsata del ragazzetto messo lì giusto per istituire ufficialmente l’oscillazione planetario-umorale della protagonista? Ecco, se tutto quello che circonda Justine non è ben impaginato, la sua stessa figura fatica a trovare consensi empatici in chi la guarda, se il suo stato bordeline è dovuto all’avvicinarsi di Melancholia, o se lei stessa può essere metaforicamente vista come quella fetta d’umanità depressa di cui Lars fa parte, non pare avere incisiva rilevanza.
Il tutto è poi immortalato attraverso una linea visiva prossima alla nausea che urlando la propria cifra distintiva trova soltanto il proprio riflesso nello specchio, cosa già successa agli albori nella trilogia europea ed anche in altre opere disseminate nel curriculum trieriano che sembrano preoccuparsi più di come raccontare piuttosto di che raccontare.
La parte della Gainsbourg ha un appeal differente, e sebbene risulti troppo indipendente rispetto a quella che l’ha preceduta, ha almeno la piccola qualità di farsi seguire, semplicemente perché la strada intrapresa sembra poter aver una conclusione degna del nome, ma la speranza di una rivelazione, di un ribaltamento percettivo, viene offuscata dalla catechizzazione di Trier che incanala i significati all’interno delle due sorelle, una cocciuta ad aggrapparsi alla vita, l’altra rassegnata nel perderla. Io, in tutta onestà, non ho visto nient’altro, se non la didascalica contrapposizione fra le caratteristiche di Claire (mora, madre, “borghesizzata”) e quelle di Justine (bionda, nemmeno moglie, ribelle).
Radiato dal Festival di Cannes a causa delle sue simpatie poco raccomandabili, Lars von Trier è da sempre un malizioso accentratore d’attenzione, e pur avendo un fiuto registico fuori dal comune, è parso molte volte che il personale narcisismo non abbia dato voce a quell’amore artistico verso il cinema che egli possiede, alternando così opere stratosferiche a capitomboli prossimi alla provocazione, ma Melancholia non sembra appartenere a nessuno dei due ranghi, solo un’opera monca, inerme, anestetizzata dalla sua estetica e desertizzata dall’impalpabile emotività.
Se questo è un film disperato, la disperazione è diventata un surrogato della banalità.
Amaramente, una delusione.
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[1] C’è un ulteriore passaggio.
Dal pessimismo intimo e personale di Antichrist si passa a quello su vasta scala di Melancholia.
Il salto è mortale e non ha felice atterraggio, se il film precedente grondava sofferenza da ogni fotogramma, qui il guscio patinato non lascia passare niente.
ah ma proprio lo stesso giorno! insomma, non t'è piaciuto... :)
RispondiEliminaperò guarda che non mi pare la maggior parte dei blogger ne abbiano parlato bene, anzi. ma non è molto importante. a prescindere dalle opinioni, devono sempre essere argomentate, e tu questo lo fai sempre bene.
ciao
anche io l'ho recensito di recente, a me è piaciuto di certo la ritengo un opera di forte impatto emotivo, dico la verità sono stata attratta da Melancholia, tanto che lo volevo vedere e vedendolo mi ha conquistata, anche il tuo parere che trovo interessante mette a punto delle cose che forse non avevo messo a punto, per me è e resta un grande film, poi per quanto riguarda le simpatie di von trier gli dico solamente che può evitare certe provocazioni per farsi pubblicità :)
RispondiEliminaL'ho visto la settimana scorsa ma solo stasera ha avuto il varo ufficiale :)
RispondiEliminaLe opinioni che ho letto, a parte quella di Mr.Ford, erano tutte strapositive, su filmscoop voti degli utenti altissimi, su idmb idem, blog vari anche. Ma concordo assolutamente con te: bisogna argomentare, soprattutto quando si ha di fronte uno come LVT che probabilmente con le critiche che gli sono piovute addosso si sarà fatto una grassa risata.
Si vede che ti è piaciuto arwen :)
RispondiEliminaMa sì, Lars è un buontempone, le righe che ho scritto subito dopo la visione sono ricche di amarezza perché nutro grande rispetto per buona parte del suo cinema, ora che sono passati un po' di giorni, però, la delusione è sbollita e ho capito che incazzandomi non ho fatto altro che il suo volere, ossia parlare di lui, e questo a Trier piace un sacco.
E come dargli torto...
prevalentamente d'accordo sulla tua opinione, è un film assolutamente vuoto, penso però che nella prima parte in realtà gli spunti ci sono stati e mi sono piaciuti, il personaggio di Justine è tragico, l'ho sentito nelle viscere, in breve ti linko qui la mia opinione: http://leplaisirdesyeux.forumfree.it/?t=58255383#entry477235641
RispondiEliminaSaluti!
Eraser, da (quasi) unico detrattore di questo film non so, a questo punto, se sono diventato il migliore alleato di Von Trier o il suo peggior nemico! :)
RispondiEliminaAd ogni modo, concordo - pur se in maniera un pò più viscerale - appieno con il tuo punto di vista.
Tranne per Antichrist. Quello proprio non lo posso guardare.
a me non ha annoiato nemmeno per un istante, e l'ho trovato parecchio emotivo. certo, non emotivo in maniera ruffiana, ma in una maniera depressa che però non ho trovato deprimente.
RispondiEliminaesteticamente poi è di una bellezza talmente abbagliante, che avercene di opere così a spazzare via la bruttezza del mondo in cui viviamo
Sai J., ho pensato a te scrivendo di Melancholia, e alla curiosità di sapere se il film ti era piaciuto o meno, pensavo di sì (o molto più di così), invece mi sbagliavo. Ho letto il tuo pezzo, e anche tu come gli spietati, citi Tarkovskij. Mi incuriosisce la similitudine perché pur non conoscendo troppo il regista russo, mi sembra lontano - almeno nello stile - da Trier. Ma parlo senza sapere le cose...
RispondiEliminaMr. e Marco siete due facce di una sola medaglia, a sto punto mi aspetto una blog wars sul cinema d'autore!
Caro Eraser, personalmente, anche se ci ho scritto una poesia, non ritengo Melancholia un film grandioso, come invece, e qui sì che siamo mosche bianche!, fu per Antichrist.
RispondiEliminaNel merito delle tue parole, ritengo che anche il buon Lars si sia spostato su un piano cosmico e alchemico portando, su questi piani impareggiabilmente sottili, il suo contributo personale, psicologico e registico (un certo "peso", nel caso specifico): ne esce un film "distaccato" da un piano narrativo drammatico in senso tradizionale, a svolgimento consequenziale, in favore invece di una serie di immagini (tale è la lunghissima sequenza del matrimonio, in questo senso, una fotografia al ralenty) dal "tiro" archetipico. In effetti, le prime sequenze, come molti hanno detto, e sulla scia di Antichrist, annunciano già tutto quanto. Ma non è Malick, nè l'a me poco caro Weerasethakul, quindi ecco una seconda parte con una Gainsbourg in ansia materna, così come un ottimo Jack Bauer nei panni dell'eroe solare maschile che sprofonda per primo davanti all'"inspiegabile eppure vero"...
Come si diceva sul mio blog e anche ne La finestra sul cortile, e come dicevi tu (io però non so mica tanto d'accordo ;-) in merito al sopracitato regista thilandese - pur se su un piano interculturale -, forse si tratta di film che parlano "a pochi", e per questo possono risultare particolarmente antipatici (o "brutti" e noiosi) ma dall'altro versante preziosi come certi testi alchemici, dove apparentemente non si capisce un cazzo, si confondono le acque, ma lo si fa affinché solo chi si trova, in quel momento, pronto, possa afferrarne certe cose.
In questo senso, Antichrist ha fatto scuola, un film che parla direttamente alle viscere e ai sessi di oscurità, di violenza ferina e femminina, in salsa nevrotricamente e empaticamente misogina e psicoanalitica...in altre parole...Trieriana.
Bell'intervento mg, anche se non ho ben capito cosa volessi dire :D (sei uno scrittore di testi alchemici?)
RispondiEliminaComunque il paragone tra LVT e AW è difficile da attuare, il cinema orientale è troppo troppo differente da questo, con ogni probabilità se la prima parte l'avesse girata AW mi sarebbe piaciuta un botto di più perché grondante di magia, sacralità e fascino, di cose che non si conoscono dalle nostre parti, ma a ragionare in questi termini non si va da nessuna parte, meglio usare pietre di paragone a mio modo di vedere più consone, e l'ultimo Malick ci sta, anzi direi che The Tree of Life sta alla Vita come Melancholia sta alla Morte, ma pur senza essere andato in brodo di giuggiole per l'americano, all'uscita della sala ero molto più soddisfatto di quando l'ho abbadonata qualche giorno fa.
Eraserhead, si Tarkovskij è lontano stilisticamente, ma è Von Trier che mette in discussione il suo cinema in chiave allegorica, neanche la provocazione in Antichrist alla conclusione del film ho apprezzato nonostate come voi ritenga quel film molto superiore a questo, molto più sincero e vicino all'autore. Emeggi ha usato bene la parola "distaccato", si lo è stato, si riversa anche nella narrazione (Justine depressa che nel finale è capace di un gesto umano nei confronti del bambino, così flaccido e falso, costruito sicuramente per il "pubblico".)
RispondiEliminaMi viene da sorridere perchè avete citato Malick, ecco... un altro regista che ci ha parlato della sua visione della vita e della natura... quando uscì dal cinema dopo aver assistito alla visione di Tree of Life pensai ancora a Tarkovskij come un fantasma che fa sentire la sua presenza (forte) ogni qual volta un regista tocca tematiche che sfiorano il mistero della vita e del cosmo, è inevitale, perchè lui è sempre lì in fondo al cuore (al mio). E anche lì, nella semplicistica visione di Malick (Grazie e Natura) manca quello sguardo impersonale, oggettivo, archetipale, che ingloba sia l'oscurità che la limpidezza dell'esistenza. In Tarkovskij l'esperienza metafisica (in senso proprio di trascendenza) è stimolata, non definita come accade in Malick e Von Trier. Tarkovskij è simbolico, vicino all'immediatezza dell'arte sacra e meditativa, gli altri due allegorici, perchè intellettuali che tentano inutilmente di assegnare immagini a ciò che sentono individualmente, diventando per l'appunto pesantemente allegorici e banali, rischiando di semplificare troppo le cose... perchè Von Trier (in questo caso) ha bisogno di usare un'immagine culturale per definire la sua depressione? Perchè Malick ha bisogno di fotografare il riflesso delle nuvole su un grattacelo per descrivere l'immanenza? Secondo me c'è qualcosa che non va, in questi due autori manca proprio l'esperienza... per quanto esteticamente le loro opere sono validissime, non posso che continuare ad affermare che sono passi molto più piccoli rispetto a quel che è stato già fatto. E mi secca vedere gente che urla al capolavoro. BASTA.
Ti applaudo fortissimo J., capisco le tue parole anche senza aver visto Tarkovskij, e le capisco perché anche io come te ho ravvisato l'intento di sovraccaricare le immagini che vorrebbero ricondurre ai significati latenti. The Tree of Life è in sostanza questo: una catena, un bombardamento di istantanee rivolte a cercare l'arché della vita, praticamente un'operazione impossibile sul piano semantico, ma soprattutto troppo... come dire, pompata, esibita, esposta, e l'ostentazione credo sia la via più sbagliata se si vuole raccontare qualcosa che, al contrario, è profondamente interno come un soffio vitale o una depressione personale.
RispondiEliminaMi viene da chiederti se hai visto Japón di Reygadas, io lo ritengo uno dei film più importanti del decennio, e gli basta l'indiscrivibile scena finale, citazione, ho letto, a Nostalghia, per oscurare queste due opere ultracelebrate. Te lo consiglio con tutto il cuore, consapevole del fatto che lì dentro c'è il cinema "che ingloba sia l'oscurità che la limpidezza dell'esistenza."
si l'ho notato nel blog, tra i "capolavori", lo vedrò presto e ti farò sapere. Era da un pò che non tornavo su internet a vedere un pò di cose.. vedrò di fare del mio meglio per rimettermi in marcia ;)
RispondiEliminaJD stimolante il tuo intervento, grazie! E anche la tua risposta, Eraser! Naturalmente non condivido il giudizio così netto, ma un confronto con Tarkovsky è di sicuro appropriato. Il mio, di giudizio, è che non denigrerei l'uno ne l'altro modo di fare cinema, li trovo semplicemente diversi e -anche- figli dei relativi tempi e luoghi. E' come trovarsi a fare una scelta esclusiva tra l'astrazione "meditativa" e le fiabe e i miti ben illustrati...questione di approcci (e di alchimia ;-)) differenti.
RispondiEliminaIl banale e il didascalico, in ambito allegorico, per me, non corrispondono per nulla al Malick o al Von Trier (dei cui contenuti di natura psicoanalitica, mistica, spirituale, cabalistica, in generale, di certo, non molto è stato colto) semmai a un Burton, a uno Spielberg (che pure hanno i loro meriti, almeno quando riescono a fare divertire o commuovere un po'). Insomma, mettere sullo stesso "piano di potenza" Biancaneve di Disney e Nostalghia di Tarkovsky è così folle?
Faccio l'avvocato di J. prima che possa rispondere. E' chiaro che la "banalità" in senso stretto non risiede ne L'albero della vita o in Melancholia, banale è una serie tv o qualche innocua commediola, il senso del paragone che comunque va contestualizzato, certamente, è che detto terra terra, né Malick né Trier sono riusciti a raggiungere quella profondità, quello spessore, quell'intransigenza artistica di chi è arrivato prima di loro.
RispondiEliminaPiuttosto, non ho ben capito l'accostamente tra Biancaneve e Nostalghia :)
Emeggi è giusto dire che ogni autore ha la sua visione e le sue qualità stilistiche e io non l'ho escluso, non mi permetterei mai di dire che i film di Von Trier e Malick sono brutti, anzi. Però ecco, in una seconda riflessione ci troviamo sempre a dire che il confronto di Tarkvoskij è appropriato, perchè sappiamo che quei temi sono stati trattati già da qualcuno. Voglio sottolineare che non escludo che Von Trier e Malick si siano avvicinati a una visione simbolica e quindi più archetipale in alcune situazioni (stiamo parlando di cinema non di pittura, quindi il significato cinematografico è complesso, può cambiare da scena a scena), ma per me prevale quella allegorica, come esperienza. Per fare un minuscolo esempio, anche Tarkovskij che ha fatto uso di immagini culturali (come le opere pittoriche metafisiche di Bruegel e Rubliov, o quella rinascimentale di Da Vinci ne "Il Sacrificio") ma le ha sempre restituite di una forza simbolica anche attraverso il suo linguaggio cinematografico, le ha fatte "vivere" dentro il suo cinema, senza mai tradire l'opera pittorica. Von Trier si perde nella sua concettualità (che io definisco allegorica), sarebbe bastato entrare nell'Ofelia di Millais che ha citato durante il film, perchè bruciare nel prologo Bruegel? Perchè rimandarsi sempre a Tarkovskij? Perchè questa supponenza? Ci sta il discorso della perdita di gravità in Solaris e quell'opposto in Melancholia, ma davvero dimostra di non aver colto il messaggio di Tarkovskij di quella scena, che era tutt'altro rassicurante. L'atteggiamento di Von Trier è un pò come l'ira di quei ribelli che effettivamente non sanno cosa stanno distruggendo e per chi lo stanno facendo. Nel prologo di Antichrist invece ho assistito "veramente" alla perdità dell'innocenza, alla rivelazione della carnalità e all'abbandono materno. Melancholia è un'opera che emoziona, con la tensione giusta, più pulita di Antichrist, ma di queste emozioni se pur forti alla fine non mi rimane niente a livello cognitivo, fruiamo di una bellezza estetica e sensoriale, finisce qui. Non ha aggiunto nulla alla mia visione del mondo e delle cose. E allora perchè non accostare Melancholia tra i miti e le fiabe Burtoniane e Spielberghiane, dove esistono veggenti e pianeti minacciosi? Con la differenza che Von Trier ha una capacità registica molto più potente e accattivante. Ma rimane tutta quella polvere di problematiche forti sollevata da Von Trier dal prologo fino alla conclusione della prima parte, che rimane in aria come la cenere dopo il grande impatto...
RispondiEliminaRiguardo Tree of Life, è la sovrabbondanza che pecca. Apre porte, orizzonti, oltre i quali non c'è verità. Ci parla di quell'Altrove eppure non ne sentiamo affatto la presenza. In "Solaris" e "Stalker" invece quei paradisi sono palpabili.
ps: non si tratta di mettere Biancaneve e Nostalghia sullo stesso piano. Si tratta di mettere a confronto film che vogliono sollevare e risolvere problematiche vicinissime, a mi parere...! Per esser chiari stiamo parlando del rapporto dell'uomo con il cosmo e con la natura.
RispondiEliminaSì, infatti, come dicevo l'accostamento tra "fiabe", "miti", per me ci sta in pieno, che sia Biancaneve, Burton, Trier, eccetera. Ognuno giochi le sue carte. Disney sa comunicare in modo potente e godibile una complessità di scena "popolare" come quella delle fiabe dei Grimm ai bambini; Trier sa dare alla depressione, in Melancholia, un respiro oltre che sociale, anche cosmico e simbolico (non sono casuali certi numeri e certe scelte "stellari") in termini allegorici, e questo non è un "nulla" aggiunto, perlomeno per molti (qualche) spettatore, così come non si può affermare che il trattare temi già toccati da un grande autore, citare e omaggiare, tolga valore alle opere che (presumibilmente) citano...Cosa accadrebbe a tutta la cultura e il pensiero degli ultimi secoli?; Malick sa suggerire immagini, accostamenti, personaggi che rappresentano "forze" (nell'ultimo esplicitamente Sephiroth); e potremmo continuare con Tarkovsky, e anche con Bergman, con Pasolini, per poi doverci comunque confrontare con letteratura e arte sacra...Di fondo credo ci sia quello che tu dici nel PS e non è che lì qualcuno abbia più bellezza o verità di altri.
RispondiEliminaPS Comunque comprendo quello che vuoi dire in generale, almeno spero, mi scuso se avessi frainteso qualcosa su temi che poi diventano così delicati...Aggiungo solo che sarebbe una seconda riflessione che non potrebbe mai fermarsi a Tarkovsky o, per dire quello su cui sono "in fissa" io, il sopracitato Pasolini, ma andrebbe -proprio- a finire su immagini e simboli, su piani molto personali, e sottili. Trovo il cinema di questi ultimi anni molto ricco di questi riferimenti, anche quello "main". Secondo me, questo, è un (buon) segno dei tempi che cambiano
Penso che in realtà ci sia sempre una differenza radicale su come l'uomo/artista si approccia a questa "cultura", c'è chi l'acquisisce come mera informazione, e chi ne acquisisce i suoi valori e li trasmette. Chi ha l'adeguata capacità tecnica e spirituale riesce nel secondo intendo, e concepisce un capolavoro. Si, io sostengo che ci sia più verità in un'opera che in un'altra. Potrebbe essere un discorso drastico, ma se non la pensassi così tradirei la mia conoscenza.
RispondiEliminaOh ragazzi continuate eh, io sto qui con i popcorn.
RispondiEliminaOk, per non farti inciccionire troppo, allora, non proseguirò con metafore talebane...
RispondiEliminai popcorn??
RispondiElimina*J. li ruba immediatamente a Eraserhead*
Mi consentite questo "pappapero" dagli Spietati (per me ottima e autorevolefonte, non so per voi) senza tirarmi dietro il barattolone di pop-corn? Mi aspettavo ci fossero molti degli elementi che ho trovato anche io e un giudizio positivo, ma cotanto...
RispondiEliminahttp://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=3910http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=3910
Il pappapero te lo consento eccome perché Gli Spietati sono la mia principale bussola in rete. Sono bravissimi e sanno di esserlo, come nella prima recensione in cui si grogiolano non poco nella loro scrittura. Un po' come von Trier :D
RispondiEliminalancerei il barattolone dei popcorn a quei 13 voti a mo' di bumerang! Come foga metaforica al disdegno di Andrej. :P
RispondiEliminaCiao a tutti! Io personalmente ho dato un'interpretazione psicologica al film, proprio perché sto studiando psicologia clinica, e devo dire che Von Trier ha creato un personaggio, quello di Justine, veramente articolato, dall'individuale all'ambientale. Mi spiego meglio: nel film vengono dipinte varie sfaccettature, come la famiglia di Justine e le sue ossessioni, la pedanteria, la ricchezza, la compulsione..tutto ciò fa da contesto a Justine, manovrata come un burattino, debole fin dall'inizio del film, fino a quando non scatta in lei qualcosa che le fa perdere il senso di ogni motivazione a vivere, lei vive una sorta di transizione dalla normalità alla patologia, che la porta dapprima a diventare paranoica e successivamente ad accusare i sintomi del delirio e della depressione nella seconda parte. Questo ritratto del personaggio è stato compiuto in modo molto dettagliato da Von Trier, da ciò reputo il film un bel modo di descrivere la patologia mentale a seguito di traumi (la sconvolgente notizia di Melancholia). Non posso inoltre far notare come tutti gli invitati alla festa siano come immersi nell'illusione o nella non consapevolezza di ciò che starà per accadere, senza però portare ciò alla coscienza, perché troppo traumatico.
RispondiEliminaIl bello di vedere un film di Von Trier è la voglia di trovare un significato ad ogni dettaglio, perché è sicuro che lui abbia trasposto un significato recondito in ogni scena dei suoi film, solo lo rende temporaneamente inaccessibile.
Orazio.
Ciao a tutti. Io sinceramente non sono d'accordo con l'analisi del film di Eraserhead, a me questo film è piaciuto molto. Quando l'ho guardato la prima volta sono rimasta perplessa, avevo visto qualcosa ma era complessa da spiegare...per andare oltre l'ho dovuto vedere più di una volta ma alla fine ho capito che questo regista è geniale. Secondo me questo film non parla di due sorelle, questo film usa due sorelle, la loro famiglia, in realtà è fuori dal tempo e dallo spazio perché parla dell'umanità in senso universale. Io, infatti, ho interpretato il ruolo delle due sorelle, non tanto come rappresentati di due ceti diversi o due caratteri opposti, ma come due visioni del mondo e della vita legate a dei fattori che ora vi spiegherò. Nella prima parte c'è il tema del matrimonio: io l'ho interpretato come il futuro...l'inizio di qualcosa...bisogna ricordare che Justine è felice nelle prime scene, poi, da quando alza gli occhi verso il cielo e si fa viva in lei la consapevolezza della morte, il matrimonio e quindi il futuro, la felicità, il "vivere" si sgretolano...lei lascia suo marito non perchè non lo ama ma perchè (è brutto dirlo)lui ha perso ogni significato. Claire, invece,non ha la certezza di ciò che accadrà, quindi la speranza la rende combattiva, lei ha un futuro da proteggere: il figlio. La loro famiglia rappresenta l'umanità e il paesaggio è surreale proprio perché non si tratta di un luogo preciso, vuole rappresentare l'essenza delle cose: il mondo e i suoi abitanti, insomma la vita sono bellissimi ma nello stesso tempo spaventosi, ci regalano speranze, sogni ma anche incubi. Anche Justine parla di incubi, certo il regista non spiega molte cose ma il bello è proprio che ognuno può interiorizzare ciò che vede e sente in base alla propria sensibilità; il regista ci dà i pezzi di un puzzle non le regole per leggerlo, d'altronde non è questo il suo ruolo secondo me. Alba.
RispondiEliminaCiao Alba, ciao Orazio (ma vi siete messi d'accordo? :) )
RispondiEliminaVi ringrazio per i commenti articolati che meriterebbero egual risposta ma al momento non posso fare altro che prendere nota delle vostre opinioni e sperare che in futuro torniate da queste parti.