domenica 10 gennaio 2021

O Regresso

Sono solo due gli anni che separano O Regresso (2012) da 42,195 Km (2010) e O Jogo (2010) ma la distanza tra il documentario e la coppia di cortometraggi è nettamente più ampia se usiamo il metro di misura della qualità, un indice che ci consegna delle modalità di fare cinema che, per quanto può interessare l’umanità circostante, incontrano il gradimento del sottoscritto. Júlio Alves qui dà il meglio di sé proprio perché, semplicemente, parla di sé attraverso delle coordinate spazio-temporali che come forse è giusto che sia non coordinano un bel niente, il quando ed il dove si diluiscono nel nobile sentimento della nostalgia che attualizza il ricordo e annulla le distanze. La genesi, parificata all’estinzione nella durata del film, è una ripresa subacquea che sa tanto di brodo primordiale, è l’inizio e la fine di un ritorno che riguarda in prima persona il regista lusitano il quale percorre fisicamente e diegeticamente le stradine di Mega Fundeira, un paese praticamente disabitato non lontano da Coimbra, luogo di nascita dei suoi genitori. “Fisicamente” non è però un termine consono all’approccio di Alves, la sua è una specie di non-presenza che vaga per il villaggio cogliendo con assoluta discrezione stralci di vite contadine, di testimonianze, di memorie antiche, perfino di sogni futuri nella scena maggiormente intensa dell’opera, ovvero quella in cui il cugino, ultimo giovane del posto, immagina come sarà di lì in poi la sua esistenza in Germania vaticinando però un regresso in quel paesino una volta divenuto vecchio, disegnando quindi uno dei tanti cerchi che percorrono e ripercorrono diversi e uguali stadi temporali.

Non ci si può nascondere troppo, se A Casa (2012) e Casa Manuel Vieira (2013) avevano una dignità artistica fatta di rigore e coerenza, O Regresso, pur usando una grammatica pressoché identica, si stacca dalle due pellicole appena menzionate per una serie di motivi che conosciamo bene e che, per fortuna, non stufano mai pur essendo iper-utilizzati. È un incontro di ingredienti che si rifanno ad un vissuto biografico e del loro felice sposalizio sull’altare di una ruralità da dove traspira un senso archetipico, misterioso e ancestrale incastrato nella quotidianità e nella ciclicità contadina, è poesia, lineare ma profonda, che arriva fino alle radici senza dircelo (e, perdonatemi se c’entra zero, ma mi sovviene quella stupida sequenza di Sorrentino in cui una sorta di Madre Teresa di Calcutta mangia delle radici affermando che le suddette sono importanti...), e se ce lo dice, perché ce lo dice, comprendiamo come se stessimo ascoltando la serena voce di un anziano dell’inclusione che il film ci offre, l’accessibilità ad una storia che, e l’ho già ripetuto svariate volte, non è nostra pur essendolo nel nucleo fondativo, nel più piccolo atomo costituito dagli affetti e dalle reminiscenze. Questo non è tanto O Regresso, in fondo nient’altro che una goccia nell’oceano, bensì ciò che suscita e che le parole di Sebald potrebbero magnificamente descrivere così:

A mio giudizio, disse Austerlitz, noi non comprendiamo le leggi che regolano il ritorno del passato, e tuttavia ho sempre più l’impressione che il tempo non esista affatto, ma esistano soltanto spazi differenti, incastrati gli uni negli altri, in base a una superiore stereometria, fra i quali i vivi e i morti possono entrare e uscire a seconda della loro disposizione d’animo, e quanto più ci penso, tanto più mi sembra che noi, noi che siamo ancora in vita, assumiamo agli occhi dei morti l’aspetto di esseri irreali e visibili solo in particolari condizioni atmosferiche e di luce.

(W.G. Sebald - Austerlitz, Adelphi; 2001)

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