venerdì 22 gennaio 2021

Profit Motive and the Whispering Wind

La Storia. Questa entità impalpabile che ci anticipa da sempre, che si materializza nei libri, che si attualizza nella ciclicità degli eventi che tornano e ritornano, di sicuro una rima che non stona mai con essa è La Morte, oltre la finitudine umana, quel senso funereo è una raffica di violenze e sopraffazioni generatrici di figli perduti ma non dimenticati: eroi, martiri, vittime, il mausoleo del ricordo contempla al suo interno un numero spropositato di loculi a cui rendere omaggio, la maggior parte dei quali, tra l’altro, piuttosto sconosciuti a noi che di ciò che ci ha preceduto, in fondo, non ci importa poi tanto. Da tali elucubrazioni si muove la meditazione per immagini di John Gianvito (non un pivello [è nato a New York nel ’56] e probabilmente non un sommo autore da rimembrare nei secoli, ma se avessimo tempo-voglia-mezzi uno sguardo alle altre cose che ha fatto lo si potrebbe dare), Profit Motive and the Whispering Wind (2007), infestato – è un po’ banale l’associazione di idee, lo so – dal fantasma di Edgar Lee Masters, si occupa di “leggere” il passato di una nazione attraverso quelli che potremmo definire i feticci di Ieri: le tombe, e non solo: targhe commemorative, epitaffi, statue, iscrizioni celebrative, il filo conduttore del viaggio mortuario (ma tutte le riprese sono state effettuate in giornate soleggiate/primaverili per cui non vi è alcuna lugubre cappa ad opprimere la visione, al contrario: ciò che si respira è un’aria salubre, come purificata) è la persistenza, oggi, di esseri umani che hanno perso la vita per una causa o a causa della stoltezza dei loro simili.

È tuttavia una persistenza flebile, pressoché invisibile, le lapidi si scrostano, ragnetti e bruchi passeggiano noncuranti su dei nomi che non dicono più molto mentre le lettere si ossidano, i licheni macchiano, l’erba ricopre e il mondo va avanti da sé fin dalla notte dei tempi. Però è apprezzabile che il cinema sia capace di fornire un taglio narrativo del genere in relazione ad una materia così abusata, Gianvito compiendo una carrellata che abbraccia una buona fetta di cronistoria americana degli ultimi duecento anni tributa una memoria collettiva che ci riguarda da vicino in quanto calpestatori del medesimo pianeta che accoglie le spoglie di chi riposa in quei cimiteri, e se lo si vuole c’è anche della poesia qui, un sentimento che, essendo ineluttabilmente elegiaco, ha un qualcosa di romantico occupandosi di trascorsi lontani, ed il vento, non a caso presente nel titolo, che sposta le fronde, che è brezza, che è frusta, è il Vento del Tempo che attraversa le ere, infatti sul finale il regista piazza un’immersione tambureggiante nel contemporaneo (si tratta, forse, di manifestazioni anti-Bush), un’operazione leggermente sfacciata che comunque non infastidisce e che rimarca il concetto: la Storia non è una linea dritta con una definita progressione bensì un cerchio che non ha inizio né fine ma solo un ora.

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