But I'm just 22,
I'm just 22,
I don't mind dying
I don't mind dying
I don't mind
(EMA – California)
I'm just 22,
I don't mind dying
I don't mind dying
I don't mind
(EMA – California)
Se G. vedesse suo padre in questo momento, sì, proprio adesso, disteso sul letto con la faccia abbandonata alla malattia, la pelle che è protesi del lenzuolo e la bocca semi aperta semi immobile, vedrebbe l’essere più debole del mondo.
Queste sono le parole che la madre di G. ha detto poco fa in preda alla commozione di fronte ai parenti venuti in processione, queste saranno le parole che la madre di G. dirà di fronte all’altare distrutta dal pianto, tra poco.
Queste, sono le parole che nelle notti di G., quelle notti fradice di sudore prima di dormire, esplodono a cascata come fuochi d’artificio. Sensi di colpa. Sua madre al momento dell’ultimo respiro sostiene di aver visto un’ombra apparire sul muro della cucina, una macchia d’umidità direbbe chiunque, l’anima intrappolata qui dentro dice lei. Anche i tubi dell’acqua, sempre secondo lei, hanno iniziato a gorgogliare di notte, e di giorno. Esiste una spiegazione, che se tutti i capelli e i peli finiti giù nello scarico del lavandino si impigliassero tra loro, creerebbero una matassa spugnosa capace di intasare l’impianto idraulico, eppure l’acqua c’è, quel rumore e quella macchia anche.
Dalla stanza della nonna materna di G. arriva una voce gracchiante, la sua. Morire è come chiudere le persiane, fa. Nessuno la capisce o la ascolta, sono 30 anni che non esce di casa, e qualcuno meno che crede di essere incinta, gravidanza isterica hanno detto i medici, sarà, però da quando è morto il padre di G. i suoi minuscoli seni raggrinziti si sono tonificati, quasi duri, e il ventre si è gonfiato per davvero tanto che nel silenzio, oltre al respiro dentro al rubinetto, si sente un piccolo toc toc provenire dalla sua pancia.
Se G. lo avesse visto in punto di morte dunque, lo avrebbe ucciso senza pietà.
Ma prima avrebbe dovuto sapere delle cose. Riserva di organi si potrebbe definire, nato per far vivere un’altra persona, suo padre.
Iniziarono quando era un bimbo con piccole trasfusioni di sangue fatte in casa, la nonna teneva il braccino fermo e la mamma con una siringa succhiava il nettare innocente dalle vene per poi riversarlo nel corpo del padre, emaciato, fragile, diabetico.
Tutto bene fino a quando, fino a quando G. non divenne completamente cieco.
È la storia della clessidra bucata, se la sabbia attraversa la strettoia e trova al di sotto un altro buco, nella clessidra non rimane niente. È una questione di quanto la gola sia larga, se passa un granello alla volta il tempo si allunga, altrimenti si accorcia, ma alla fine il risultato è sempre quello: la sabbia sparisce e resta solo il vuoto. Per G. i granelli sono precipitati senza gravità, globulo rosso dopo globulo rosso, insieme a parole senza senso nella sua cecità: cancrena diabetica e il giorno dopo non aveva più le dita delle mani e dei piedi. Altra parola: cancrena di Fournier, e al mattino i suoi testicoli si trovavano in un altro scroto.
La cosa buffa è che quando il padre di G. infilava le dita cucite nella fica secca di sua moglie, quelle dita non erano le sue, ma del proprio figlio, e anche quando scopavano da dietro come i cani il seme che schizzava dentro non era del padre, ma di G.
Granello dopo granello, l’ombra sul muro, il respiro del rubinetto.
Fu ancora più buffo, poi, quando il padre di G. oltre che fuori, iniziò a marcire anche dentro. (la riserva di organi). E il primo ad andarsene fu il fegato, poi un rene, poi un polmone. Fino a quando nel corpo di G. era rimasto poco o niente, se non un vuoto, un’assenza, è sempre la storia della clessidra bucata, in fondo.
Mostro! Lo urla sputacchiandogli in faccia quel poco di saliva che le resta. La madre dagli occhi cerchiati, tutta ossa e nervi, appiccicata a quell’ombra sul muro, riversa la bile in parole: mostro!, prosegue, non sei nemmeno riuscito a salvare tuo padre, non lo hai nemmeno visto soffrire, lui che avrebbe dato la vita per te! Dalla stanza della nonna, supina con il pancione teso e stretto fra le sue mani rugose, si avverte una voce, sempre la sua, e dice che morire è come chiudere le persiane, prima vedi gli uccellini sugli alberi, i bambini felici che corrono dai genitori, i delfini, l’arco del sole infuocato al crepuscolo, e poi mentre chiudi sempre meno, meno fiorellini, meno buonenotti, meno arcobaleni, meno luna park, meno ultimi giorni di scuola.
Sensi di colpa. G. piange a dirotto con le sue pupille ridotte a due mandorle bianche, piange e non riesce a darsi pace, se avesse le dita per togliersi le lacrime, se avesse potuto vedere suo padre almeno l’ultima volta, se avesse saputo la storia della clessidra bucata.
La cosa per niente buffa è che G. pur senza 20 falangi, senza le palle e senza gran parte degli accessori interni di cui è dotato ogni essere umano, è riuscito a sopravvivere per anni, mentre adesso sta morendo di dolore, straziato da un macigno in cancrena e ingabbiato in una ragnatela di peli e capelli. Mostro! Mostro! Mostro! Mostro! Continua, lei.
Si accorsero che era morto solo dopo alcuni giorni. Non destò attenzione il suo corpo esanime in mezzo al corridoio, piuttosto la madre diafana vide che sulla parete in cucina si era formata un’altra macchia, un altro alone, un’altra ombra, un po’ più piccola. E dal rubinetto ogni tanto scivolava via qualche goccia, plic plic faceva, come fanno le lacrime.
Quando uno muore, continuava la nonna dal ventre abnorme, è uguale che se chiudesse delle persiane, prima vede, poi meno, e infine non gli resta che spiare attraverso le fessure. Ci si accontenta di questo, sosteneva. Pur di non abbandonare completamente la vita si diventa macchie, ombre, rumori, pianti.
Ora G. conosce la storia della clessidra bucata. Ma non prova rabbia, né rancore. Anzi è quasi contento perché ha scoperto di non essere l’unico, granello dopo granello. Un’altra clessidra, un altro giro di vita, un altro di morte.
La nonna in questo momento si sta recidendo le corde vocali a suon di urli, il suo tumore all’utero è un ricordo lontano perché da tempo ne ha uno più giovane. Il nuovo utero contiene un dono. Da figlio a padre, da padre a madre, da madre a madre.
Un corto circuito generazionale scuote le fondamenta della casa, la nonna incinta del proprio nipote arriccia le lenzuola del letto, le molle stridono, in cucina le macchie sul muro si stanno spostando lentamente in camera, fluttuano lungo le pareti lasciando un’aria gelida dietro di sé. Solo dopo giunge anche la madre color vetro, anche lei fluttua. E tutti assistono al miracolo.
Le ombre, la madre, la nonna; un’altra processione. La casa si incapsula in una biglia di plastica trasparente decollando verso l’universo assiderale, e da lì un suono primordiale inconfondibile: il vagito di un neonato.
Queste sono le parole che la madre di G. ha detto poco fa in preda alla commozione di fronte ai parenti venuti in processione, queste saranno le parole che la madre di G. dirà di fronte all’altare distrutta dal pianto, tra poco.
Queste, sono le parole che nelle notti di G., quelle notti fradice di sudore prima di dormire, esplodono a cascata come fuochi d’artificio. Sensi di colpa. Sua madre al momento dell’ultimo respiro sostiene di aver visto un’ombra apparire sul muro della cucina, una macchia d’umidità direbbe chiunque, l’anima intrappolata qui dentro dice lei. Anche i tubi dell’acqua, sempre secondo lei, hanno iniziato a gorgogliare di notte, e di giorno. Esiste una spiegazione, che se tutti i capelli e i peli finiti giù nello scarico del lavandino si impigliassero tra loro, creerebbero una matassa spugnosa capace di intasare l’impianto idraulico, eppure l’acqua c’è, quel rumore e quella macchia anche.
Dalla stanza della nonna materna di G. arriva una voce gracchiante, la sua. Morire è come chiudere le persiane, fa. Nessuno la capisce o la ascolta, sono 30 anni che non esce di casa, e qualcuno meno che crede di essere incinta, gravidanza isterica hanno detto i medici, sarà, però da quando è morto il padre di G. i suoi minuscoli seni raggrinziti si sono tonificati, quasi duri, e il ventre si è gonfiato per davvero tanto che nel silenzio, oltre al respiro dentro al rubinetto, si sente un piccolo toc toc provenire dalla sua pancia.
Se G. lo avesse visto in punto di morte dunque, lo avrebbe ucciso senza pietà.
Ma prima avrebbe dovuto sapere delle cose. Riserva di organi si potrebbe definire, nato per far vivere un’altra persona, suo padre.
Iniziarono quando era un bimbo con piccole trasfusioni di sangue fatte in casa, la nonna teneva il braccino fermo e la mamma con una siringa succhiava il nettare innocente dalle vene per poi riversarlo nel corpo del padre, emaciato, fragile, diabetico.
Tutto bene fino a quando, fino a quando G. non divenne completamente cieco.
È la storia della clessidra bucata, se la sabbia attraversa la strettoia e trova al di sotto un altro buco, nella clessidra non rimane niente. È una questione di quanto la gola sia larga, se passa un granello alla volta il tempo si allunga, altrimenti si accorcia, ma alla fine il risultato è sempre quello: la sabbia sparisce e resta solo il vuoto. Per G. i granelli sono precipitati senza gravità, globulo rosso dopo globulo rosso, insieme a parole senza senso nella sua cecità: cancrena diabetica e il giorno dopo non aveva più le dita delle mani e dei piedi. Altra parola: cancrena di Fournier, e al mattino i suoi testicoli si trovavano in un altro scroto.
La cosa buffa è che quando il padre di G. infilava le dita cucite nella fica secca di sua moglie, quelle dita non erano le sue, ma del proprio figlio, e anche quando scopavano da dietro come i cani il seme che schizzava dentro non era del padre, ma di G.
Granello dopo granello, l’ombra sul muro, il respiro del rubinetto.
Fu ancora più buffo, poi, quando il padre di G. oltre che fuori, iniziò a marcire anche dentro. (la riserva di organi). E il primo ad andarsene fu il fegato, poi un rene, poi un polmone. Fino a quando nel corpo di G. era rimasto poco o niente, se non un vuoto, un’assenza, è sempre la storia della clessidra bucata, in fondo.
Mostro! Lo urla sputacchiandogli in faccia quel poco di saliva che le resta. La madre dagli occhi cerchiati, tutta ossa e nervi, appiccicata a quell’ombra sul muro, riversa la bile in parole: mostro!, prosegue, non sei nemmeno riuscito a salvare tuo padre, non lo hai nemmeno visto soffrire, lui che avrebbe dato la vita per te! Dalla stanza della nonna, supina con il pancione teso e stretto fra le sue mani rugose, si avverte una voce, sempre la sua, e dice che morire è come chiudere le persiane, prima vedi gli uccellini sugli alberi, i bambini felici che corrono dai genitori, i delfini, l’arco del sole infuocato al crepuscolo, e poi mentre chiudi sempre meno, meno fiorellini, meno buonenotti, meno arcobaleni, meno luna park, meno ultimi giorni di scuola.
Sensi di colpa. G. piange a dirotto con le sue pupille ridotte a due mandorle bianche, piange e non riesce a darsi pace, se avesse le dita per togliersi le lacrime, se avesse potuto vedere suo padre almeno l’ultima volta, se avesse saputo la storia della clessidra bucata.
La cosa per niente buffa è che G. pur senza 20 falangi, senza le palle e senza gran parte degli accessori interni di cui è dotato ogni essere umano, è riuscito a sopravvivere per anni, mentre adesso sta morendo di dolore, straziato da un macigno in cancrena e ingabbiato in una ragnatela di peli e capelli. Mostro! Mostro! Mostro! Mostro! Continua, lei.
Si accorsero che era morto solo dopo alcuni giorni. Non destò attenzione il suo corpo esanime in mezzo al corridoio, piuttosto la madre diafana vide che sulla parete in cucina si era formata un’altra macchia, un altro alone, un’altra ombra, un po’ più piccola. E dal rubinetto ogni tanto scivolava via qualche goccia, plic plic faceva, come fanno le lacrime.
Quando uno muore, continuava la nonna dal ventre abnorme, è uguale che se chiudesse delle persiane, prima vede, poi meno, e infine non gli resta che spiare attraverso le fessure. Ci si accontenta di questo, sosteneva. Pur di non abbandonare completamente la vita si diventa macchie, ombre, rumori, pianti.
Ora G. conosce la storia della clessidra bucata. Ma non prova rabbia, né rancore. Anzi è quasi contento perché ha scoperto di non essere l’unico, granello dopo granello. Un’altra clessidra, un altro giro di vita, un altro di morte.
La nonna in questo momento si sta recidendo le corde vocali a suon di urli, il suo tumore all’utero è un ricordo lontano perché da tempo ne ha uno più giovane. Il nuovo utero contiene un dono. Da figlio a padre, da padre a madre, da madre a madre.
Un corto circuito generazionale scuote le fondamenta della casa, la nonna incinta del proprio nipote arriccia le lenzuola del letto, le molle stridono, in cucina le macchie sul muro si stanno spostando lentamente in camera, fluttuano lungo le pareti lasciando un’aria gelida dietro di sé. Solo dopo giunge anche la madre color vetro, anche lei fluttua. E tutti assistono al miracolo.
Le ombre, la madre, la nonna; un’altra processione. La casa si incapsula in una biglia di plastica trasparente decollando verso l’universo assiderale, e da lì un suono primordiale inconfondibile: il vagito di un neonato.
Mi assento giusto il tempo per.
RispondiEliminaAl mio ritorno, un incubo.
Che sia un "buon incubo", solo ciò mi sento di augurarti...E buone vacanze, se è per questo che ci saluti!
RispondiEliminaUn incubo di celluloide. :)
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