Produzione serbo-ungherese girata nel 2007 per mano del magiaro Szabolcs Tolnai ispiratagli dal romanzo La clessidra (1971) edito in Italia da Adelphi e scritto dall’autore slavo Danilo Kiš. Infatti la traduzione italiana della parola ungherese “fövenyóra” è proprio “clessidra”, un oggetto che per antonomasia si collega allo scorrere del tempo, un fluire che nel film di Tolnai non è regolare ma si istituisce in una continua alternanza tra passato e presente. Ne consegue che lo scivolare della sabbia da un bulbo di vetro all’altro diviene innaturale, come se una mano invisibile scuotesse il dispositivo mescolando il getto degli accadimenti. Si profila perciò un cinema cifrato a cui non preme la linearità del racconto per, all’opposto, incunearsi nei flash(back) e presentare situazioni a se stanti o sottilmente dipendenti alle vicissitudini paterne in un metodo che ricalca bene l’affrancamento dei Ricordi. Qualche veduta interessante Tolnai riesce a proporla (la seduta spiritica!), ma la ferita difficilmente medicabile causata da una sgangheratezza complessiva fa male al consumo della storia in cui capita sovente di rimanere perplessi dinanzi ad un andamento così sbilenco.
Una piccola boa di salvataggio ci viene fornita dalla regia che non tradisce la propria bandiera.
Al di là del bianco e nero capace di fornire sempre quel quid pluris ad una pellicola contemporanea, il garbo delle riprese è notevole e incontra i gusti di chi ama quel cinema capace di esaltare gli spazi interni ed esterni (molto bello l’incipit dove la mdp ha come traccia il tronco di un albero), e che con la stessa finezza coglie la faccia(ta) dell’uomo e subito dopo quello che hanno dentro. Anche se in realtà questo discorso non è granché assegnabile a Fövenyóra perché l’introspezione legata alla memoria personale resta intrappolata nella ragnatela riecheggiante, pertanto lo smarrimento di Andreas assume contorni sfocati al pari della sua nostalgia.
Presenti nel cast due attori che hanno lavorato con Béla Tarr: Lars Rudolph (Le armonie di Werckmeister, 2000) e János Derzsi (Il cavallo di Torino, 2011).
ce l'ho da un po', forse è arrivato il momento:)
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