Roba da non credere!
Una volta terminata la visione ci si domanda come sia possibile che il nome di Apichatpong Weerasethakul compaia sotto la voce director. Lui che fino a quel momento ci aveva abituato (e continuerà a farlo in futuro) ad un tipo di cinema che mi piace definire reincarnante perché ogni film, anche e soprattutto l’esperimento Mysterious Object at Noon (2000), trova nella diegesi uno spazio di vita-morte che assume proporzioni ripetitive, con Hua jai tor ra nong (2003), co-diretto insieme all’amico artista Michael Shaowanasai, mente del progetto e protagonista di fatto, firma una pellicola lontana, lontanissima dal suo stile in tutto e per tutto, giusto per dire: quando mai abbiamo sentito in una sua opera così tanta musica?
Eppure, c’è sempre un eppure, all’occhio attento non sfuggiranno certe sottigliezze che a fronte di una scarsa idoneità poetica dell’autore, riescono a scovare una legittimazione, un senso d’essere in relazione a chi sta dietro la mdp.
Prima considerazione obbligatoria e dal carattere macro è che in Thailandia il genere melodrammatico andò (e forse va tutt’ora) molto in voga nella cinematografia locale spiccia, difatti la figura di Iron Pussy è ispirata a quella di Petchara Chaowarat, un’attrice d’epoca che recitò in una montagna di film, praticamente l’Edwige Fenech thai.
Esempio chiarificatore del ruolo che questo genere ebbe nella formazione dei registi thailandesi contemporanei può essere quello di Pen-Ek Ratanaruang, un altro che solitamente si occupa di cinema (da) oltre (il fondo), ma che ciononostante girò nel 2001 il musical Love Song: Monrak Transistor.
La seconda osservazione decisamente più personale riguarda il fatto che se si legge in rete qualche intervista a Weerasethakul si evince (sorprendentemente) come nel suo bagaglio culturale ci sia posto anche per b-movie di infimo ordine e fumetti per ragazzi, elementi che qui si possono rintracciare in lungo e in largo, notare il vestito à la Capitan America del finale tanto per intenderci.
La terza riflessione è proprio una quisquiglia che forse non andrebbe nemmeno riportata, eppure (visto?) ad un certo punto si paventa l’arrivo di una tigre, l’animale feroce aveva già fatto capolino nel film d’esordio con il gioco del cadavere squisito, ma essa avrà un ruolo di primo piano nell’appena successivo Tropical Malady (2004) i cui finanziamenti ritardatari obbligarono Apichatpong a sedersi a un tavolino con Shaowanasai.
Riassunto: non ci si crede che il regista sia Weerasethakul, invece lo è e forse non c’è nemmeno troppo da meravigliarsi.
Ordunque, sviscerata la questione paternità che poco potrebbe interessarvi, è meglio riportare i miei due centesimi su The Adventure of Iron Pussy.
Tenendo conto che ci troviamo di fronte ad una rivisitazione-omaggio in tutto e per tutto, perfino nella tecnica di doppiaggio che copre le voci degli attori in scena durante le parentesi canore, e tenuto anche conto che di questi musicarelli thai noi europei nulla ne sapevamo, è difficile che una pellicola così possa far stracciare le vesti ad uno spettatore che inconsapevole del divertissement si trova dinanzi un film di facile lettura, innocente e volutamente sciocco.
Volutamente perché la ripresa degli stilemi passati attua un processo di celebrazione pressoché ridicolizzante in grado di autorizzare gli autori ad imbottire di ingenuità molti passaggi narrativi. Si sorride sul colpo di scena soapoperistico – e non poteva essere che così – dell’eroina che si scopre figlia e sorella della madre nemica, cosiccome lo svelamento di identità da parte della responsabile delle cameriere che è un coup de théâtre ricolmo di fiera goffaggine.
Si sorride, appunto, e poi che altro? Nonostante le vertigini pop, tinte sgargianti, gli abiti di Iron-Pussy, e tracce di spiritualismo ben ossidate nell’arte weerasethakuliana (la divinità parlante e la statua nell’antro del villain), il resto lo si subisce con discreta impassibilità, forse perché il tutto ha una matrice troppo thailandese per poter essere apprezzato all’estero, e forse perché il sottoscritto ritiene la rivalutazione un atto legittimo ma non imprescindibile in particolare quando dietro ad un disegno come questo c’è uno che col cinema ci sa fare eccome. Si preferiscono idee fresche piuttosto che precipitati post.
Visione partigiana, solennizzante, commemorativa, solo i thailandesi puri potranno gustare appieno, a tutti gli altri resta la consapevolezza che il vero Weerasethakul non si trova qua.
Una volta terminata la visione ci si domanda come sia possibile che il nome di Apichatpong Weerasethakul compaia sotto la voce director. Lui che fino a quel momento ci aveva abituato (e continuerà a farlo in futuro) ad un tipo di cinema che mi piace definire reincarnante perché ogni film, anche e soprattutto l’esperimento Mysterious Object at Noon (2000), trova nella diegesi uno spazio di vita-morte che assume proporzioni ripetitive, con Hua jai tor ra nong (2003), co-diretto insieme all’amico artista Michael Shaowanasai, mente del progetto e protagonista di fatto, firma una pellicola lontana, lontanissima dal suo stile in tutto e per tutto, giusto per dire: quando mai abbiamo sentito in una sua opera così tanta musica?
Eppure, c’è sempre un eppure, all’occhio attento non sfuggiranno certe sottigliezze che a fronte di una scarsa idoneità poetica dell’autore, riescono a scovare una legittimazione, un senso d’essere in relazione a chi sta dietro la mdp.
Prima considerazione obbligatoria e dal carattere macro è che in Thailandia il genere melodrammatico andò (e forse va tutt’ora) molto in voga nella cinematografia locale spiccia, difatti la figura di Iron Pussy è ispirata a quella di Petchara Chaowarat, un’attrice d’epoca che recitò in una montagna di film, praticamente l’Edwige Fenech thai.
Esempio chiarificatore del ruolo che questo genere ebbe nella formazione dei registi thailandesi contemporanei può essere quello di Pen-Ek Ratanaruang, un altro che solitamente si occupa di cinema (da) oltre (il fondo), ma che ciononostante girò nel 2001 il musical Love Song: Monrak Transistor.
La seconda osservazione decisamente più personale riguarda il fatto che se si legge in rete qualche intervista a Weerasethakul si evince (sorprendentemente) come nel suo bagaglio culturale ci sia posto anche per b-movie di infimo ordine e fumetti per ragazzi, elementi che qui si possono rintracciare in lungo e in largo, notare il vestito à la Capitan America del finale tanto per intenderci.
La terza riflessione è proprio una quisquiglia che forse non andrebbe nemmeno riportata, eppure (visto?) ad un certo punto si paventa l’arrivo di una tigre, l’animale feroce aveva già fatto capolino nel film d’esordio con il gioco del cadavere squisito, ma essa avrà un ruolo di primo piano nell’appena successivo Tropical Malady (2004) i cui finanziamenti ritardatari obbligarono Apichatpong a sedersi a un tavolino con Shaowanasai.
Riassunto: non ci si crede che il regista sia Weerasethakul, invece lo è e forse non c’è nemmeno troppo da meravigliarsi.
Ordunque, sviscerata la questione paternità che poco potrebbe interessarvi, è meglio riportare i miei due centesimi su The Adventure of Iron Pussy.
Tenendo conto che ci troviamo di fronte ad una rivisitazione-omaggio in tutto e per tutto, perfino nella tecnica di doppiaggio che copre le voci degli attori in scena durante le parentesi canore, e tenuto anche conto che di questi musicarelli thai noi europei nulla ne sapevamo, è difficile che una pellicola così possa far stracciare le vesti ad uno spettatore che inconsapevole del divertissement si trova dinanzi un film di facile lettura, innocente e volutamente sciocco.
Volutamente perché la ripresa degli stilemi passati attua un processo di celebrazione pressoché ridicolizzante in grado di autorizzare gli autori ad imbottire di ingenuità molti passaggi narrativi. Si sorride sul colpo di scena soapoperistico – e non poteva essere che così – dell’eroina che si scopre figlia e sorella della madre nemica, cosiccome lo svelamento di identità da parte della responsabile delle cameriere che è un coup de théâtre ricolmo di fiera goffaggine.
Si sorride, appunto, e poi che altro? Nonostante le vertigini pop, tinte sgargianti, gli abiti di Iron-Pussy, e tracce di spiritualismo ben ossidate nell’arte weerasethakuliana (la divinità parlante e la statua nell’antro del villain), il resto lo si subisce con discreta impassibilità, forse perché il tutto ha una matrice troppo thailandese per poter essere apprezzato all’estero, e forse perché il sottoscritto ritiene la rivalutazione un atto legittimo ma non imprescindibile in particolare quando dietro ad un disegno come questo c’è uno che col cinema ci sa fare eccome. Si preferiscono idee fresche piuttosto che precipitati post.
Visione partigiana, solennizzante, commemorativa, solo i thailandesi puri potranno gustare appieno, a tutti gli altri resta la consapevolezza che il vero Weerasethakul non si trova qua.
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