giovedì 15 novembre 2012

Magnus

Ogni tanto ne spunta qualcuno. Come quando si fa un giro tra le bancarelle dell’usato e sbuca un libro di cui non hai mai sentito né il titolo né l’autore, lo leggi, lo divori, si sedimenta e non se ne vuole andare più via. Nel cinema il discorso è potenzialmente simile perché al giorno d’oggi, grazie ad Internet, un Eraserhead qualunque può pescare una piccola, maccheddico, una micro produzione estone girata nel 2007 da una bella e brava regista di nome Kadri Kõusaar che ha da poco completato il suo secondo film dal titolo The Arbiter (2012), vederla, e riservarle subito una dose massiccia di buone parole.

Lo scopo dell’opera è quello di proporre una visione dell’adolescenza venata in profondità dalle sue problematiche. Di certo non è la prima e non sarà nemmeno l’ultima volta che questo disagio viene traslato su pellicola, ma il lungometraggio (non troppo lungo vista la durata) sa navigare al largo della derivazione affiancandosi appena appena alla malinconia di Falkenberg Farewell (2006) per allontanarsene quasi subito grazie ad un esteso supporto tragicomico non dissimile dai lavori del connazionale Veiko Õunpuu.
Il protagonista, Magnus, appunto, è portatore di un malessere profondamente radicato in se stesso dovuto ad un’inaffettività palese. Identificare i disturbi nel presente con gli eventi del passato è un’operazione che, anche se scientificamente vera, in letteratura ha da tempo colmato la misura, tuttavia qui lo si fa con quella leggerezza che sotto l’apparente carta velina nasconde uno strato duro come il piombo, per cui se Magnus è così oggi è perché da piccolo suo padre lo portava con sé al lavoro, e tenendo conto che il genitore di mestiere fa il talent-scout per case pornografiche a sommare 2+2 ci si mette poco.
   
La mancanza di una figura materna, che infatti noi non vedremo mai pur essendoci, illustrata efficacemente all’interno del night club dove Magnus vede un nanetto in braccio ad una prostituta, unita ad una figura paterna che invece c’è ma ha un’età mentale intorno ai 18 anni (si fa di qualunque droga e si fa qualunque tipo di donna purché giovane), gettano il ragazzino in un baratro di sconforto fin da piccolo quando già faceva dei giochetti del tipo “se non arrivo alle scale entro 30 secondi oggi morirò”. Come è facile immaginare, non è solo il quadro famigliare a scrostarsi, ma anche la sfera sociale che lo contiene costellata di piccoli esseri umani ammuffiti: la vicina di letto in ospedale per un overdose, la psicologa che di sera fa la vita, il barbone che ricevuta la carità chiede se in cambio debba sdebitarsi con un pompino. Si rintraccia dunque una sofferenza trasversale che ricade pesantemente sulle spalle della giovinezza e quindi del futuro. Come detto però il registro è felicemente contaminato da nervature ironiche cosicché anche degli argomenti dolenti risultano sgravati dal peso della drammaturgicità, e allora vedendo un padre de(l)-genere si farà fatica a non sorridere sebbene il suo comportamento sia parecchio deplorevole.

Il filo del grottesco è bello teso ma non si spezza mai, e al contempo quella sottile inquietudine accompagna costantemente il narrato. Ad ogni modo non è tutto qua perché la regista ci mette del suo con degli inserti estatici, riprese allucinate in bilico tra il poetico e il lisergico (le immagini sul traghetto, il padre danzante nel fuoco) che conferiscono un che di sospeso al film. Nel finale questi tre aspetti (grottesco, inquietudine, sospensione) giungono alla coincidenza e in un silenzioso quanto invisibile crescendo la catarsi viene suggerita con le inaspettate lacrime di un papà che si rende conto di aver perso il proprio figlio, per sempre.

Ogni tanto ne spunta qualcuno. Sono rari perché questi oggettini consapevoli della loro bellezza amano nascondersi negli anfratti più oscuri, ma quando vengono scovati si lasciano adorare fino a rimanere impressi a lungo nella memoria di chi li ha visti.

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