martedì 15 agosto 2017

nessuno viene a scopare qui

Voglio essere un tuffatore
per rinascere ogni volta dall’acqua all’aria 
(Flavio Giurato – Il tuffatore)

Quando qualcuno si introduce nel quadrilatero brulicante di prostitute, quel qualcuno diventa Nessuno, quindi, forse, se stesso, un cacciatore, un segugio, un’altra persona che è la vera persona custodita sotto l’armatura della quotidianità, Nessuno non passa di lì per caso, il filo d’Arianna che lo muove nel dedalo umido è una libido che gli prende dentro, che lo incendia nell’immaginario erotico di potersi accoppiare con una sconosciuta nei fondi ammuffiti di una palazzina per qualche decina di euro, c’è solo una parola che serpeggia da un crocicchio all’altro, ed è: “quanto?”, ma è un sussurro flebile, un codice di intesa che connette individui incanutiti con paffute señorite dalla pelle caffelatte, nessuno, sempre lui, sempre Nessuno, viene qui per compiere l’azione più decisiva di tutto il cosmo maschile, scopare; lui, ora, sta invece pensando: “la prima cosa che le dirò sarà che non sono venuto per scopare”. Un topo spelacchiato attraversa la strada e si infila in un tombino a pochi passi da un paio di zeppe alte così i cui piedi all’interno presentano una fine smaltatura rossa, si avvicina cauto, come fanno tutti, e le chiede se sa dove sia Maria Soledad, la ragazza rumina un po’ con la gomma ed emette uno schiocco con la lingua che probabilmente significa “no”, alle loro spalle c’è però un’altra donna, con molti più anni e molti meno denti, che ridacchia di gusto ripetendo continuamente sottovoce il nome di Maria Soledad, Maria Soledad, Maria Soledad, Maria Soledad, Maria Soledad, Maria Soledad, Maria Soledad, Maria Soledad, Maria Soledad, Maria Soledad, Maria Soledad, Maria Soledad, la litania diventa una sorta di mantra e gli occhi della vecchia si trasformano in due uova sode e dalla bocca, oltre ad una schiuma biancastra, fuoriescono queste parole: “la porta verde”, e poi inizia a piovere fortissimo e nell’aria rimpalla solo il rumore dei tacchi che picchiettano sui sampietrini dei vicoli, allora lui comincia a camminare, dove: non lo sa, un tuono sconquassa i secolari palazzi del quadrilatero, tutte le prostitute, le Sante Madonne e le piccole figlie, si sono già rintanate nelle alcove in subaffitto e sgranocchiando qualche patatina cercano di collegarsi via Skype con i parenti in Sud America, l’uomo trova riparo sotto la tettoia di quello che un tempo era un bar, per terra l’acqua forma dei rivoli che si portano dietro tutte le confezioni di preservativi aperte e buttate via, tutti gli schizzi di sperma e saliva necessari al compimento dei servizi, l’acqua ripulisce il filo d’Arianna, spazza gli sciami invisibili di feromoni, non c’è davvero più nessuno ora, a parte una persona disperata e sola da quindici anni. Dalla scomparsa di sua figlia.

Si lascia alle spalle la porta verde per scendere delle scale che conducono in un buio spaventoso, ma giunto a quel punto non ha più paura, non può averne! Le indagini per arrivare ad un barlume di verità gli hanno succhiato via ogni bene, sia fisico che economico, è diventato uno scheletro coi baffi, mangia insieme ai gatti randagi, ha passeggiato ore ed ore sotto il sole pensando a come poi le cose sarebbero andate una volta arrivato lì, ha dormito in un bosco atro per abituarsi alla possibile oscurità, è impazzito, no, non è impazzito, non gliene frega più niente del mondo e per questo, quando dopo un corridoio illuminato a intermittenza da alcune lampadine si ritrova di fronte ad un’altra porta verde, la apre come se fosse quella di casa sua.

BREVE BIOGRAFIA DI LAKSHMINARAYAN KRISHNAMURTHY

Lakshminarayan Krishnamurthy nasce il 15 agosto del 2017 a Dharavi da una coppia di immigrati pakistani che vive in una delle baracche della zona. Terzo di quattro fratelli (tutti morti da piccoli a causa di svariate infezioni non curate) all’età di tre anni perde il padre rigattiere per via di un incidente stradale, di lui avrà solo un vaghissimo ricordo che si dissolverà completamente in età adulta. Fin da bambino dimostra una spiccata intelligenza e grazie ad una ONG locale che permette ai più giovani di frequentare gratuitamente lezioni di inglese e matematica, si appassiona all’astronomia e passa intere nottate con il naso all’insù a mangiare ciotole di ottimo kheer preparate dalla mamma mentre la stessa pulisce latte di pittura che poi rivenderà ad una fabbrica di vernici nei dintorni. Nel 2026 un evento lo cambia per sempre: durante un’afosa giornata estiva passata a giocherellare con altri amichetti fuori dalla casa, alcuni turisti occidentali passano proprio affianco l’abitazione, dal gruppo si stacca una ragazza bionda con una maglietta su cui si può leggere “University of Illinois”, la donna si avvicina a piccoli passi verso Lakshminarayan che, lercio e mezzo nudo, rimane immobile avvertendo però dentro di sé una sensazione mai provata prima, e quando i due sono uno di fronte all’altro una profonda forza interiore li spinge ad abbracciarsi, lei inizia a piangere, lui, racconterà poi a sua moglie, in quel momento ha capito per la prima volta che cosa sia la felicità. A diciotto anni perde la verginità con un’orribile prostituta di Mumbai, a diciannove si prende una cotta non ricambiata per una coetanea che frequenta la sua stessa scuola, deluso da una vita che non lo soddisfa nel 2037, grazie ad un’azione mondiale orientata allo sviluppo della mobilità giovanile, riesce ad ottenere una sovvenzione per iscriversi in un’università americana, la scelta ricade su quella dell’Illinois. Quell’anno saluta la madre che non rivedrà mai più e sbarca negli Stati Uniti per iniziare il corso di ingegneria aerospaziale. Nel 2042 si laurea a pieni voti e pochi giorni dopo la discussione della tesi un terremoto di proporzioni bibliche devasta l’India uccidendo centinaia di migliaia di persone, sente sua mamma l’ultima volta la sera prima del disastro promettendole che di lì a poco sarebbe tornato a trovarla. Tre anni dopo, mentre si trova in un bar di Springfield, nota una chioma bionda che gli dà le spalle, avverte l’eco lontana di un sentimento sopito ma mai cancellato, si alza dal tavolino perché ha la necessità di guardare questa persona in faccia, ma in quel momento qualcuno la chiama al cellulare e lei sgattaiola fuori dal locale. Il trentesimo compleanno sarà il migliore di sempre, secondo solo alla nascita dei suoi due figli gemelli: viene assunto in un’azienda informatica che produce software per la terraformazione di Marte, nel suo reparto, quello legato all’azione degli agenti atmosferici, conosce Paolina Tharstakis, una collega di origini greco-russe della quale si innamora perdutamente, l’amore è corrisposto e nel giro di poco i due vanno a vivere insieme. Sono anni belli ed irripetibili, pieni vita e libertà, Lakshminarayan e Paolina si sposano e viaggiano tantissimo, scoprono mondi nuovi e, contemporaneamente, scoprono se stessi, visitano Buenos Aires, Porto, Città del Capo, Bangkok, e in Italia, precisamente a Genova, in un piccolo hotel del centro storico, concepiscono i due figli che nasceranno nove mesi dopo, è il 2050 ed Ela e Yorgos vengono alla luce, quando Lakshminarayan stringe al petto i due frugoletti ripensa alle notti passate a fissare il cielo con sua mamma intenta a scrostare i barili e, semplicemente, piange di gioia. Il decennio successivo scorre placido e sereno, i bimbi crescono e la carriera lavorativa dei coniugi Krishnamurthy si consolida sempre di più. Intorno al 2060 l’Europa è oggetto di una brutale sommossa da parte degli stati mediorentali che attaccano il Vecchio Continente sia dall’esterno, attraverso poderosi blitz militari da parte degli eserciti turchi, iracheni, egiziani e sauditi, sia dall’interno per mezzo di cani sciolti che come ai tempi dell’ISIS propagano terrore tra i civili. È l’inizio delle terza guerra mondiale ed il governo americano decide di sospendere i finanziamenti per gli studi sulla vivibilità del suolo marziano. A quarantatre anni Lakshminarayan si trova disoccupato, così come sua moglie. Però non perde fiducia e in una notte d’agosto, mentre il respiro regolare della famiglia addormentata lo rincuora e gli dà forza, decide di aprire un ristorante indiano, all’inizio sembra una follia ma l’entusiasmo e la lungimiranza che lo contraddistinguono fanno sì che in poco tempo l’attività riesca a farsi un nome e grazie ad un tambureggiante passaparola nel 2065 diventa uno dei locali più apprezzati di Springfield, il posto migliore in tutti gli Stati Uniti dove poter gustare del kheer. Nel giorno del cinquantesimo compleanno, proprio durante la festa tenuta in suo onore, Laksy, così ormai veniva chiamato, sente una fitta atroce allo stomaco e si precipita in bagno a vomitare, tra i resti di torta nota dei filamenti rossastri, ma poco dopo torna in sala ostentando la solita pacata allegria. Inizialmente non viene dato peso all’episodio, ma Paolina nota in lui dei significativi cambiamenti, l’uomo mangia sempre meno e delega di sovente ad un amico le varie incombenze del ristorante. Nel 2068 il conflitto mondiale finisce, l’Europa ne esce distrutta ma in qualche modo viva, nello stesso anno a Lakshminarayan viene diagnosticato un tumore allo stomaco. Inizia un lungo calvario dove delusione e speranza sono gli stati emotivi che si alternano senza sosta, a volte sta bene, come se niente fosse, altre volte sta male e non riesce ad alzarsi da letto. Nei mesi precedenti al decesso vuole scrivere un diario per lasciare una traccia della vita che ha vissuto, ma le forze lo abbandonano presto e nelle ultime pagine ripete confusamente il misterioso nome di una certa Maria Soledad, di una non precisata porta verde e di una grossa pesca succulenta. Alle 10:14 del 25 marzo 2070 Lakshminarayan Krishnamurthy muore circondato dall’affetto di Paolina e dei figli Ela e Yorgos, l’ultimo suo pensiero andrà a quella ragazza bionda che lo abbracciò fuori dalla baracca di Dharavi.

“non sono venuto qui per scopare”, adesso si trova al centro di una piccola stanza rischiarata da un abat-jour che colora l’ambiente di toni caldi e accoglienti, alle pareti sono appesi piccoli quadri che ritraggono fiori e case di campagna, di fronte a lui un grosso specchio riflette la sua smilza figura, sul letto matrimoniale Maria Soledad è sdraiata come se fosse in posa davanti ad un artista, il pugno a sorreggerle la tempia, il corpo adagiato sul materasso coperto da un lenzuolo giallino, il seno, strabordante, contenuto a malapena da un corpetto di pizzo nero le cui spalline sono sfiorate dai boccoli rigonfi che le incorniciano il viso, ha sui cinquant’anni, molti dei quali, sicuramente, passati in quello scantinato, però il rossetto color lampone, il fard che le leviga la pelle e la matita nera intorno agli occhi le donano un aspetto in un qualche modo ancora attraente. Guarda l’uomo che è giunto fin lì, ne ha visti parecchi, tutti disperati, e a tutti ha sempre risposto: nessuno viene a scopare qui, Nessuno viene per scomparire. Lo fa sedere e gli offre un bicchiere d’acqua fresca, nell’aria si diffonde un profumo estasiante, di violetta, di bucato asciugato al sole, gli dice che sì, sua figlia, quindici anni prima, è passata di lì, e lui subito: “Dove si trova ora? Ti prego mandami da lei! So che puoi farlo!”, e lei con fare materno risponde che è passato molto tempo e che non ricorda bene, forse è finita in Ecuador, in una famiglia di delinquenti alla periferia di Quito, o forse negli Stati Uniti ed è diventata un medico in Illinois, ad ogni modo, anche se per puro caso si incontrassero di nuovo non si riconoscerebbero, io, aggiunge Maria Soledad, sono solo una grondaia che raccoglie le gocce di un diluvio universale, il mio potere è limitato e non so nemmeno perché sono in grado di fare questo, non so perché un dio sconosciuto me ne ha dato la possibilità, ma adesso sei qui, davanti a me, e devi decidere cosa fare. Il padre è sfinito, mentre ascolta in silenzio un film di immagini mute gli scorre nel cervello e in ogni fotogramma c’è la ragazzina che ha perso: “basta, me ne voglio andare, voglio cancellare tutto, ti prego: fammi rinascere”. Allora la donna, nonostante una corporatura non proprio esile, spalanca le gambe che tese a mezz’aria presentano degli adduttori ben torniti, in mezzo alle cosce è visibile una grossa pesca tagliata a metà senza il seme, lei lo invita a inginocchiarsi al bordo del letto e a mangiare quel succoso frutto, lui timidamente annusa la polpa gialla poi allunga la lingua tastandone il dolce sapore, dopodiché mordicchia la parte centrale fino a che i morsi si tramutano in addentate furiose, e più azzanna e più gli sembra che non abbia mai fine, che il canale vaginale, l’utero, la pancia e tutto il corpo di Maria Soledad siano diventati un’immensa pesca tonda e capiente come la Terra, e quando gli pare di essere finalmente giunto in fondo capisce che in realtà è solo all’inizio: la stanza e la sua proprietaria sono svanite, lui stesso, in quegli ultimi momenti di lucidità, sta svanendo come un filo di fumo, avverte appena appena la leggerezza dell’inconsistenza, forse il tepore di un grembo materno, i suoni sonici ovattati dell’esterno, il proprio cuore che decelera rintoccando flebile, fino al Nulla.

Riapre gli occhi in un altro tempo e in un altro spazio per ritrovarsi minuscolo, insanguinato e urlante nella più grande baraccopoli dell’India.

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