Ecco cosa è Danse
macabre (2009): la versione aurea del momento di assenza, di
quando il corpo si fa solo corpo, restauro del movimento post-vita,
una salma che in qualche modo si illude, o ci illude, di fare ancora
parte di quel Gran Ballo in cui siamo ogni santo giorno impegnati a
ricordare i passi. Sicuramente il franco-canadese Pedro Pires è uno
con un’idea estetica ben definita, ogni fotogramma è pensato e
inquadrato in un preciso modo ed anche i mezzi impiegati per le
riprese dimostrano una qualità altissima, di gran lunga superiore a
buona parte dei prodotti cinematografici che arrivano nelle sale. Da
qui si principia un apparato visivo che ha una confezione perfetta
per abbacinare l’occhio spettatoriale, ma, come sostenevo per Hope
(2011), il corto successivo di Pires, anche per quest’opera ci
troviamo in un territorio estremamente artefatto, tutto improntato
sull’esteriorità e incostituito da un nucleo francamente
assente. Di nuovo dobbiamo confrontarci con un oggetto che non
sfigurerebbe affatto se facesse da accompagnamento a qualche brano
musicale, e infatti la presenza uditiva della Callas che occupa buona
parte della proiezione assurge a protagonista lasciando alle immagini
il ruolo di spalla.
Allora, in un estetismo
così pronunciato e così spudorato, anche il possibile sottotesto si
assottiglia fino a scomparire sotto la mole dell’aspetto. E a dirla tutta il discorso di Pires non sarebbe così scentrato, mettere
in mostra questa danza villoniana muta, 2.0, intombata nel digitale,
far carico al cinema di poteri straordinari, rendere vivo, anche se
solo apparentemente, un cadavere, oppure ricordarci che anche la
morte ha una specie di grazia, una propria leggiadria che in Danse
macabre di certo non manca (d’altronde sembrerebbe quasi che in
ogni situazione, anche una volta riposta nella bara, gli spostamenti
della donna siano i passi di una ballerina), tutti intenti meritevoli
d’attenzione che però al cospetto di cotanta costruzione si
smaterializzano. Forse sto guardando le cose dal mio piccolo e
inutile recinto ma pur cercando di aprirmi all’oggettività non
riesco più a digerire la pesantezza della mano registica. Voglio
natura, origine, verità, e non involucri spacciati per videoarte.
Nessun commento:
Posta un commento