Lenzi per il suo Mangiati vivi! (1980) pescò da questo film di Sergio Martino la sequenza all’interno della grotta di Rarami. E lo stesso Martino inaugurò così la sua trilogia “esotica” che vede in successione Il fiume del grande caimano (1979) e L’isola degli uomini pesce (1979).
Beh, potrei fare un copia e incolla dei cannibal da me precedentemente commentati. I cliché del genere ci sono tutti: ambientazione esotica, occidentali in missione, violenza gratuita sugli animali, qualche scenetta pseudo erotica e l’immancabile sfilamento di frattaglie dallo stomaco di un malcapitato a mò di coniglio dal cilindro.
Tecnicamente modesto, trasmette nelle scene più dinamiche un senso di quiescenza dovuto probabilmente ad un montaggio pessimo. E mi riferisco in particolare all’uccisione di un’indigena e alla morte di un nanetto cannibale che sbatte la testa su di una pietra.
La trama, seppur ammorbata da dialoghi loffi, è la cosa meno peggio. Tutto rientra nella routine, ma un piccolo colpo di scena a mezz’ora dalla fine, e qualche trovata limitatamente interessante, tipo il marito disperso ritenuto una divinità agli occhi degli indigeni per via del suo metal-detector, rendono il plot leggermente superiore ad alcuni dei suoi simili.
La protagonista è Ursula Andress, una delle Bond girl più amate di sempre. E questo mi fa capire che forse, 30 anni fa, il genere cannibal non era poi tanto vituperato.
Con La montagna del dio cannibale concludo il mio viaggio nel cinema bis italiano che è iniziato prima ancora che questo blog nascesse. Magari in futuro riprenderà, chi può dirlo...
Dal canto mio ho capito che dal letame possono nascere i fior, ma ora voglio vedere qualche diamante.
Beh, potrei fare un copia e incolla dei cannibal da me precedentemente commentati. I cliché del genere ci sono tutti: ambientazione esotica, occidentali in missione, violenza gratuita sugli animali, qualche scenetta pseudo erotica e l’immancabile sfilamento di frattaglie dallo stomaco di un malcapitato a mò di coniglio dal cilindro.
Tecnicamente modesto, trasmette nelle scene più dinamiche un senso di quiescenza dovuto probabilmente ad un montaggio pessimo. E mi riferisco in particolare all’uccisione di un’indigena e alla morte di un nanetto cannibale che sbatte la testa su di una pietra.
La trama, seppur ammorbata da dialoghi loffi, è la cosa meno peggio. Tutto rientra nella routine, ma un piccolo colpo di scena a mezz’ora dalla fine, e qualche trovata limitatamente interessante, tipo il marito disperso ritenuto una divinità agli occhi degli indigeni per via del suo metal-detector, rendono il plot leggermente superiore ad alcuni dei suoi simili.
La protagonista è Ursula Andress, una delle Bond girl più amate di sempre. E questo mi fa capire che forse, 30 anni fa, il genere cannibal non era poi tanto vituperato.
Con La montagna del dio cannibale concludo il mio viaggio nel cinema bis italiano che è iniziato prima ancora che questo blog nascesse. Magari in futuro riprenderà, chi può dirlo...
Dal canto mio ho capito che dal letame possono nascere i fior, ma ora voglio vedere qualche diamante.
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