martedì 27 luglio 2010

Rughe

Cinzia Castello perse la verginità a quattordici anni poggiando le natiche su un covone di fieno appena trebbiato. Ricorderà più il frinire dei grilli e l’odore pungente d’erba falciata che il volto del suo partner. Quando scese dal mucchio di paglia, piccole e fluide stalattiti di sangue penzolavano alle estremità delle spighe. Vedendole, rise.
Mario Belmessieri Costanti inforcò un meraviglioso paio di occhiali da vista stile fondo di bottiglia a dodici anni e non li tolse mai più. Le lenti erano il suo schermo per vedere il mondo, senza di esse era perso, con loro addosso deriso. Diventando uomo il papà comprò gli occhiali più belli e sofisticati che c’erano su tutto il mercato, ma tanto per Mario sempre occhiali erano.
Oltre quei vetri spessi un giorno vide un angelo in mezzo a quell’inferno e se ne innamorò. In un briciolo di tempo perse tutta quella razionalità che gli era stata inculcata dai genitori, calpestò la sua dignità con appostamenti notturni e dichiarazioni al gas liquefatto, tentò le strade più impervie e le discese più ripide rischiando di farsi del male, ma mai di farsi amare.
Cinzia camminava col suo passo soffice sopra l’asfalto attirata più dalle vetrine che dalle voci, e quando da sola si trasferì in città, i covoni di fieno diventarono i sedili di un auto. Non più i soliti bifolchi svenivano al suo profumo, ma un giorno quello e il giorno dopo quell’altro, un po’ tutti insomma, tranne Mario. Lui era troppo magrolino, pallido, bassetto, e portava gli occhiali. Lei rise vedendolo per la prima volta, lui si innamorò. E continuò ad amarla per i mesi che seguirono, e poi negli anni che segnavano il loro andare con il ripetersi delle stagioni, come l’amore di Mario che era imperturbabile al sole cocente che secca la pelle e al vento che spianta i capelli lasciando il malinconico ricordo di quel che si era.
Cinzia era tutto per Mario, ma lei per se stessa era solo il suo riflesso sullo specchio. Quando non si riconobbe più in quell’immagine, e quando ormai troppe notti passavano solitarie nel letto, lo sposò. Non si può narrare la gioia di quell’omino e della festa imponente che organizzò per celebrare il matrimonio. Neanche le malelingue che serpeggiavano durante la funzione avrebbero scalfito l’armatura di Mario, se il veleno della gente sibilava che Cinzia lo sposava solo per i soldi, lui rispose che lo voleva dinanzi all’altare, nella salute e nella malattia, finché morte non li avesse separati.
Seguirono anni che sembravano camminare all’indietro. Più il tempo passava e più Cinzia ringiovaniva, fino a quando nel secondo di un andare a capo, Cinzia.
Era tornata la ragazzina dei covoni di fieno.
Ancora le serpi bisbigliavano che i soldi di Mario avevano guidato un bisturi sulla pelle di Cinzia, ma dietro i suoi occhiali spessi sapeva che tutto accadeva per amore, anche un’operazione chirurgica.
Ah l’amore! Che anni felici passarono, una seconda giovinezza per Cinzia, la prima per Mario. Nelle notti passate ad aspettarla, Mario, sentiva un odore di erba tagliata accompagnarla in casa. Lei disse che era una nuova fragranza francese, lui la adorava. Si riempiva le narici di quell’odore per sopperire la sua mancanza, e a nulla gli importavano le voci astrologiche sul suo conto. “Io sono vergine, mica toro o capricorno!” Ripeteva a tutti.
Per suggellare la loro splendida unione decise di regalare a Cinzia la borsa più bella che fosse mai stata cucita, almeno secondo lei. Per comprarla dovette portarsi dietro un’altra borsa: piena di soldi. Impachettata ed infiocchettata fu posata da Mario sul tavolo della cucina; quando lei rientrò ancora con i collant mezzi abbassati ed il reggiseno appallottolato nella tasca del cappotto, quasi svenne al cospetto di quella magnifica borsa: quanta perfezione nelle cuciture e nei risvolti di cuoio che impreziosivano l’accessorio, che sapienza nel ricamare le trame sulla superficie liscia, quale sagacia nel dotarla di un manico in tinta con il ninnolo appeso alla cerniera! Cinzia si arrese prostrandosi ai piedi della borsa in adorazione totale. Una lacrima carica di mascara andò a morire sulle labbra stinte di rossetto, labbra che quella notte avevano visto un gran via vai dalle loro parti, labbra pulsanti di silicone che in quell’istante si andarono a posare su quelle di Mario per la prima volta. E il sole si accese in quella cucina. Da dietro gli occhiali due cuoricini avevano fregato il posto ai soliti occhietti, e danzando un ballo silenzioso, Mario fu soffiato nel letto come una piuma che dondola nell’aria, e che posandosi rimane immobile. Ciò che accadde quella notte non si può qui raccontare, ma alcuni affermarono che nei giorni successivi Mario uscì di casa senza occhiali, e a nulla servivano le zuccate contro i pali, quei due cuoricini vedevano più di un falco, o forse credevano di vedere.
Cinzia decise che non avrebbe mai usato la borsa: ”È troppo bella e fuori ho paura che qualcuno la rovini, o peggio ancora che mi venga rubata.” Così la chiuse in un armadio.
Si sa che l’amore è eterno o perlomeno ci va vicino, soprattutto quando l’altra metà del cielo è una borsa di pelle. Non passava giorno che Cinzia andasse in camera per schiudere d’un poco l’anta e rasserenarsi alla visione della sua adorata. “Come mi piace – pensò – un giorno la porterò fuori, un giorno sì, lo farò.”

Passarono ancora degli anni, non troppi ma abbastanza da quietare l’esuberanza di Cinzia.
Adesso sono una coppia come molte altre, guardandoli passeggiare per il parco hanno una quasi ammirevole dignità (sorvolando sul fatto che lei porta ancora ritagli di gonna con tacchi vertiginosi e ama esporre la propria siliconata mercanzia). Anche Mario con l’età ha smesso di amarla tanto intensamente, certo resta la cosa più cara che ha al mondo, però è passata, le vuole bene senza volergliene troppo, con semplicità come fanno i bambini. L’altro giorno succede che Cinzia apre l’armadio come era d’abitudine da tanto tempo, e, con orrore indicibile, nota che la pelle della borsa una volta perfettamente conciata, adesso era segnata da vistose grinze. Santo Cielo! D’istinto la prende e se la rigira fra le mani, vede che tutta la superficie è ricoperta da sottili venature che la intarsiano maldestramente. Ossignore! I manici sono tutti rattrappiti insieme alle guarnizioni oramai sbiadite. Sant’iddio! Irrompe nella stanza dove Mario sta riposando: “Sveglia vecchio bacucco! La mia borsa, guarda!”. Mario si stropiccia gli occhi e con la mano destra cerca a tastoni i suoi spessi occhiali sul comodino. Li trova. Resta in contemplazione di quella che una volta era la più perfetta delle borse, guarda Cinzia, si schiarisce la voce: “Sembra come… sembra quasi che stia invecchiando.”
Una ventata improvvisa spalanca la finestra e tra i due si intrufola un profumo antico, di fieno secco, d’erba tagliata. È un attimo, poi sparisce.

6 commenti:

  1. buon viaggio!

    Ci hai lasciato con un bel racconto. Inutile ripetere che hai un talento particolare. :)

    RispondiElimina
  2. Ma che bel racconto! Wilde si calerebbe il cappello =P
    Ricapitando qui, ho notato con piacere che continui a nutrire il sito con un sacco di articoli ^^ bene bene. Mi manca un po' oldboy lassù in alto, ma si cambia, si cresce.
    Buona continuazione
    abatjour

    RispondiElimina
  3. In effetti, mi chiedevo che fine avessi fatto.
    Ben ritornata, e io sì, non ho mai smesso di scrivere.

    RispondiElimina