Venticinque anni dopo Fitzcarraldo (1982) Herzog ritorna nella sua tanto amata (e odiata) foresta sudamericana per riprendere le gesta di un uomo che si iscrive di diritto nel lungo elenco degli eroi folli herzoghiani: Graham Dorrington ingegnere aeronautico inglese col pallino del volo che condivide con i suoi “simili” la stessa follia, lo stesso slancio vitale rinvenibile già nel patriarca di tutti gli squinternati di Herzog, quel soldato Stroszek che impazzito sparava razzi sulla cittadina di Kos nel meraviglioso Segni di vita (1968).
L’occhio silenzioso del regista immortala, ancora una volta, il sogno di un uomo ed i suoi limiti che tenta di valicare, del rapporto intimo con la natura che a volte si ritorce contro e a volte è preziosa alleata. Sono anni che Herzog propone queste storie, eppure gli riescono (quasi) sempre alla grande.
Nei suoi documentari la verità del reale è sempre affiancata da una verità della finzione (ma può essere vera la finzione?) per cui nel documentare ci si imbatte in una messinscena, in un qualcosa che va dalla semplice inquadratura al più complesso dialogo che non è vero, che è finto, che è fiction. Dubito che la piccola diatriba tra Herzog e Dorrington sia spontanea, piuttosto aiuta ad intensificare la realtà aumentando la suspense per il primo volo del dirigibile. Si è grandi registi anche così.
Ma Herzog è grande perché riesce a trovare spesso e volentieri personaggi straordinari le cui storie sono quasi più interessanti del film in questione. Penso subito al bambino sordo-cieco di Paese del silenzio e dell’oscurità (1971) o al vecchietto imprigionato per non so quanti anni in Kalachakra - La ruota del tempo (2003). O Herzog ha un culo incredibile, oppure è un fenomeno nello scouting. Questa volta tocca ad un nativo del posto, Marc Anthony, malinconico per la lontananza della madre, che conosce a menadito le proprietà terapeutiche delle erbe e ha per migliori amico un gallo. Barbarossa, questo è il suo soprannome, non è poi così diverso da Dorrington, entrambi condividono la stessa pulsione di volare, lo stesso incontrollabile desiderio di riallacciare il filo col passato: per lo scienziato il volo concluderebbe finalmente la missione in cui morì il suo amico Dieter e per l’indigeno segnerebbe l’ipotetico ritorno da sua madre in Spagna. Il primo c’è riuscito a realizzare il suo sogno, per il secondo non lo saprò mai, ma voglio immaginarmi di sì, che Marc Anthony abbia volato oltre l’oceano col Diamante Bianco fino a Malaga per riabbracciare la sua famiglia. Oppure no, che non serva l’oceano, ma solo passare attraverso la cascata e infilarsi nella tana dei rondoni, forse lì lo spazio non esiste e quella telecamera che gira in tondo riportandoci al camion di Stroszek o ai nani che hanno iniziato da piccoli smette il suo giro infinito e penetra nell’ignoto della caverna. Herzog ha visto cosa si nasconde laddietro, magari la famiglia di Marc Anthony.
L’occhio silenzioso del regista immortala, ancora una volta, il sogno di un uomo ed i suoi limiti che tenta di valicare, del rapporto intimo con la natura che a volte si ritorce contro e a volte è preziosa alleata. Sono anni che Herzog propone queste storie, eppure gli riescono (quasi) sempre alla grande.
Nei suoi documentari la verità del reale è sempre affiancata da una verità della finzione (ma può essere vera la finzione?) per cui nel documentare ci si imbatte in una messinscena, in un qualcosa che va dalla semplice inquadratura al più complesso dialogo che non è vero, che è finto, che è fiction. Dubito che la piccola diatriba tra Herzog e Dorrington sia spontanea, piuttosto aiuta ad intensificare la realtà aumentando la suspense per il primo volo del dirigibile. Si è grandi registi anche così.
Ma Herzog è grande perché riesce a trovare spesso e volentieri personaggi straordinari le cui storie sono quasi più interessanti del film in questione. Penso subito al bambino sordo-cieco di Paese del silenzio e dell’oscurità (1971) o al vecchietto imprigionato per non so quanti anni in Kalachakra - La ruota del tempo (2003). O Herzog ha un culo incredibile, oppure è un fenomeno nello scouting. Questa volta tocca ad un nativo del posto, Marc Anthony, malinconico per la lontananza della madre, che conosce a menadito le proprietà terapeutiche delle erbe e ha per migliori amico un gallo. Barbarossa, questo è il suo soprannome, non è poi così diverso da Dorrington, entrambi condividono la stessa pulsione di volare, lo stesso incontrollabile desiderio di riallacciare il filo col passato: per lo scienziato il volo concluderebbe finalmente la missione in cui morì il suo amico Dieter e per l’indigeno segnerebbe l’ipotetico ritorno da sua madre in Spagna. Il primo c’è riuscito a realizzare il suo sogno, per il secondo non lo saprò mai, ma voglio immaginarmi di sì, che Marc Anthony abbia volato oltre l’oceano col Diamante Bianco fino a Malaga per riabbracciare la sua famiglia. Oppure no, che non serva l’oceano, ma solo passare attraverso la cascata e infilarsi nella tana dei rondoni, forse lì lo spazio non esiste e quella telecamera che gira in tondo riportandoci al camion di Stroszek o ai nani che hanno iniziato da piccoli smette il suo giro infinito e penetra nell’ignoto della caverna. Herzog ha visto cosa si nasconde laddietro, magari la famiglia di Marc Anthony.
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