mercoledì 5 agosto 2020

Demning

Da Kano (2011), che forse giudicai in maniera troppo superficiale, a Demning (2015) il passo è stato breve: Paul Tunge mette nuovamente al centro della scena una crisi di coppia, ma rispetto al film precedente che verso il finale si prendeva delle licenze che sbalestravano la traccia principale, qui la questione è molto più circoscritta e protesa verso l’obiettivo, non nitida né immediata, quello no, però bilanciata nella sua costruzione e nel suo sviluppo. La storia, a cui viene sottratto qualunque orpello possibile, vede due ragazzi che decidono di fare un’escursione in montagna, la quantità di informazioni che Tunge somministra è ridotta al minimo: pare che la coppia si conosca da pochissimo, uno sembra più virile e aggressivo, l’altro mite e riflessivo, camminano nella natura, si abbandonano ad immersioni lacustri, ogni tanto effettuano delle attività in cui emergono i tratti caratteriali appena citati, come se uno allenasse/spronasse l’altro. Non è la prima volta che il cinema si occupa di un’estromissione dalla città per scrutare l’uomo in un ambiente primigenio, ricordo le affinità rintracciabili con The Loneliest Planet (2011), Old Joy (2006) e Out of Nature (2014, dove Tunge ricopriva il ruolo di assistente alla regia), Demning ha in comune con queste proposte la concettualità del viaggio che ovviamente non è tanto fisico quanto interiore, ritengo che sia questa la chiave di accesso per comprendere (e perché no anche apprezzare) il lavoro del regista norvegese, perché altrimenti, ad una lettura epidermica, resterebbero soltanto delle bolse scaramucce tra due ragazzetti che si credono ancora boy scout.

Ed il viaggio personale di cui parliamo non può che essere un viaggio sentimentale. Lo è per i due protagonisti di cui pian piano scopriamo qualcosa delle loro vite e delle loro emozioni, sia del passato che del presente, ma lo è anche, e se vogliamo credere nel film è il momento di farlo qua, accogliendo ciò che sto per affermare, in caso contrario Demning risulterà uno dei tanti onanismi autoriali che popolano la scena mondiale, dicevo: lo è anche per tutti gli altri, innamorati e disinnamorati, in uno slancio che si fa universale. Perché la vicenda sullo schermo, un amorazzo scandinavo che ha bruciato la passione nel giro di qualche notte, è la metaforizzazione di una qualsiasi storia d’amore con i suoi step definiti a partire dall’inizio quando l’altro subisce il processo di idealizzazione e diventa ciò che si vuole diventi e non ciò che in realtà è (scena nel tunnel con l’attribuzione reciproca di qualità che nessuno dei due conosce per davvero), e poi si prosegue con dei “normali” eventi di criticità che crepano il rapporto fino a provocare una ferita incurabile, e Tunge è bravo nel dosare gli elementi di rottura, mai esplicito, si colgono più che altro gli effetti: l’insofferenza che si traduce in masturbazione solitaria, l’invasione della privacy con la lettura del diario. Tutto ciò è la deduzione di un impianto antiletterale che vive in una dimensione sospesa, quasi onirica (del resto Tunge è un gran tessitore di atmosfere, si veda il successivo Ad Astra, 2016), dove ralenti da videoclip e sequenze contemplative dettano un ritmo alieno e disorientante, eppure, se lo si vuole, è appagante estrapolare un senso d’insieme unificante, oltre la materia trattata la congiunzione è anche nello spettatore che rivive quel freddo risveglio slavato dove lui o lei non sono chi avevamo pensato e sperato fossero, e allora la percezione muta e una vetta si profila, di rabbia, gestita abilmente dal regista che sfasa l’ordine temporale ricollegandosi al primo fotogramma, ma con quel consapevole amaro in bocca di una separazione.

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