In Crystal
World (2013) c’è un pizzico di Bertrand Mandico e forse anche
uno di Guy Maddin perché ciò che l’australiana Pia Borg ha
compiuto nel suo lavoro breve è, mi si passi il termine, una
rimodernizzazione di protocolli cinematografici d’antan, e quindi
vale tutto per concorrere al modellarsi di un prodotto che trasuda
artigianalità ma anche, va detto, professionalità. Tratto da un
romanzo di Ballard tradotto da noi col titolo Foresta di
cristallo, il corto, servendosi
dei paradigmi dell’animazione weird, sicché stop-motion e tecniche
equipollenti, e operando di taglia e cuci su La
morte corre sul fiume
(1955) di Charles Laughton, diventa apertura su un mondo d’apnea,
sotto una superficie che è anche sopra, che forse è un tutto
o qualcosa che le si avvicina. La brevità dell’oggetto in siffatti
casi non aiuta, o meglio, non aiuta uno spettatore incatenato alla
razionalità, chi al contrario preferisce mollare le redini canoniche
e affidarsi all’artista di turno troverà asilo in forme espressive
variegate e, seppur ammantate da una certa decadenza, vivaci.
Se
le reiterate immagini subacquee della donna riportano per forza di
cose fuoriorarie a Vigo, la composizione globale, e proprio di questo
si tratta: di un composto, fa fede ad un concetto di videoarte –
credo – abbastanza moderno. Non sperimentale, non avanguardistico:
contemporaneo, dentro al tempo che abita, almeno dal punto di vista
concettuale e realizzativo. Ammaliante e pure “scomodo” per
l’inquietudine che diffonde il corredo sonoro, se la Borg aveva
come obiettivo quello di allestire una realtà in progressiva
solidificazione (e leggete la parola con una accezione negativa)
penso sia condivisibile ammettere che ci sia riuscita, la
cristallizzazione permanente, un po’ gotica un po’
švankmajeriana, trasmette le vibes adeguate. Ah, e quelle stalagmiti
che salgono verso l’alto non ricordano il video di Crystalline
girato
da Gondry? Volendo sì, è solo un’altra suggestione che
arricchisce il prestigioso parterre dei rimandi.
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