China, China (2007)
segna l’inizio della collaborazione tra João Rui Guerra da Mata e
João Pedro Rodrigues, una sinergia che produrrà parecchi altri
esemplari pressoché tutti accomunati da uno studio sulla
complementarietà e l’annessa inunibilità
tra oriente e occidente nei panni geografici del Portogallo e della
Cina, due mondi, per dirla banalmente, così vicini così lontani. In
questo cortometraggio venato da una comicità tendente al nero e
proposto in un contenitore formale da “film”, cosa che nel
successivo Alvorada Vermelha (2011) scomparirà completamente,
è chiaro l’intento dei due registi di mettere in scena un disagio
forse ancor prima culturale che personale, infatti la giovane mamma
nonostante si trovi a Lisbona con il marito e il figlioletto, è come
se non si fosse mai allontanata dalla Cina, fuori dalla sua stanza
infatti la casa è piena di suppellettili e cibi orientali, la musica
che si diffonde è di stampo asiatico al pari dell’action movie che
l’uomo guarda in soggiorno col bimbo, ecco allora l’idea di una
compenetrazione che non si riesce del tutto a finalizzare, nel mezzo
rimane comunque una ragazza depressa (“please kill me”) il cui
umore è delineato dagli autori portoghesi fin da subito, la prima
sequenza casalinga la vede seduta con alle spalle un panorama
notturno di New York mentre ascolta un’audiocassetta di lezioni in
inglese, non è una finestra ma il poster che campeggia nella stanza,
un miraggio plastificato raggiungibile, magari un giorno, con gli
euro nascosti nella scatola da scarpe.
Non è la prima
fotografia nella storia del cinema di una pesante insoddisfazione
intima né può considerarsi una delle più efficaci, facendo però
parte di un progetto dalla portata parecchio ampia è avvertibile un
senso di coesione e coerenza tanto che, nella scelta di non mostrare
fisicamente il compagno della donna, vengono in mente le
impersonalità di The Last Time I Saw Macao (2012) al pari di
un finale che vede una non dissimile accelerata caustica immotivata
ed estemporanea ma che non provoca fastidio alcuno. In China, China
la crasi tra est ed ovest si rivela problematica e la protagonista
che incarna tale problematicità subisce l’ingabbiamento del
proprio Paese d’origine traslato in Europa, vi sono finezze che ci
dicono di sogni agognati (lo scivolamento sulla ringhiera e il
susseguente sbattere dei tacchi in stile Dorothy) e realtà spinte
all’eccesso che sfrondate di ironia rimangono realtà, non si
scappa facilmente dalle proprie prigioni, soprattutto quelle sociali.
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