giovedì 29 agosto 2013

The Girl

A causa di alcuni intoppi burocratici la piccola di casa non può seguire la sua famiglia in partenza per l’Africa. Ad accudirla giunge una zia parecchio scapestrata.

Un occhio al titolo: “flickan” in svedese significa “ragazza”, constatazione banale vista la fedele traduzione fatta col titolo inglese, ma, a meno che in Svezia tale lemma possegga un altro nocciolo semantico, qui di ragazze non ce ne sono, decisamente: la protagonista senza nome non ha neanche dieci anni, ha tratti fisici acerbi ed informi, e sogna degli altrove appiccicando ritagli e fotografie in un angolino tutto suo. Ergo: il debuttante Fredrik Edfeldt suggerisce le intenzioni attribuendo alla sua creatura non il nome di ciò che è ma di ciò che sarà. Sì, The Girl (2009) è cinema della crescita, branca inflazionata da luoghi comuni che rischiano sempre di scivolare nel ritrito, cosa che in questo film, soprattutto quando si concentra nell’illustrazione dei pari età, purtroppo accade: il contrapporre due ochette tutte attente agli abiti e al trucco alla più introversa protagonista è un’operazione lapalissiana che una volta messa in atto genera situazioni elementari come l’avvicinamento tra la ragazzina e il compagno di (dis)avventure. È questo meccanismo scoperto a non far elevare la pellicola da un mood giffoniano (senza offesa) dove anche le infiltrazioni drammatiche si disperdono in un tessuto a cui non interessa impattarsi con lo spettatore, si tiene leggero, svolazza in altre categorie tipo la commedia senza attecchire davvero alle esigenze pre-visione così riassumibili: per favore, non un altro ritratto dell’infanzia costituito da genitori assenti (in tutti i sensi) e coetanei perfidi.

In questo percorso guidato Edfeldt ritorna continuamente a sottolineare l’inefficienza del mondo adulto che non appare un modello a cui tendere. Tutti i “grandi” presenti nella storia non hanno comportamenti propriamente irreprensibili, a cominciare dai genitori che partono per una sorta di missione umanitaria lasciando però la loro in figlia nelle mani di una zia oltremodo incosciente, senza dimenticare il vicino di casa che non disdegna la bottiglia, o all’insegnate di nuoto che mostrando il suo fisico nudo e decadente infligge un promemoria estetico alla Nostra. Il tragitto formativo è costellato da siffatte punteggiature che creano un contrasto generazionale sì e no riuscito tale da rendere questo aspetto l’unico sufficientemente rifinito di tutta l’opera, peccato però che il regista accosti a tale discorso parentesi metaforiche indebolenti che rivelano una banalità di fondo immedicabile, l’insistenza sul salto come gesto di crescita personale fa parte del citato insieme figurativo, ma questa, come la rana che scappa dalla scatola e perfino quella stravagante della mongolfiera, sono tutte immagini che arrivano subito come subito arriva ciò che vorrebbero nascondere. Va bene affidarsi alle simbologie per impepare la messa in scena, a patto però che siano tali e che non si riducano a didascalie con velleità comprovanti, ed un po’ ciò che accade con il titolo stesso: Edfeldt mette sul piatto la fine del processo, siamo però sicuri che la certificazione avvenga con lo sguardo sfuggente della piccola di fronte allo specchio? Negli avvenimenti precedenti i dubbi si insinuano e lì si sedimentano.

Ambientato all’inizio degli anni ’80 in una splendida campagna svedese, spicca con tutta la naturalezza di una bambina la deliziosa interpretazione di Blanca Engström per la prima volta di fronte ad una cinepresa.

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