sabato 27 febbraio 2010

Two Lovers

Checcifa un film come Two Lovers su Oltre il fondo? Ci fa ci fa…
È che in preda a leggere le classifiche dei migliori film dell’anno appena passato, mi sono scordato di fare la mia. Anzi, diciamo che non ho voluto stilarla perché le classifiche sono fatte per essere sconfessate. Ciononostante, facendo mente locale, mi pareva giusto menzionare quella che insieme a Frozen River (2008) è stata una delle sorprese più gradite del cinema d’oltreoceano per il sempre Vostro Eraserhead.

Domanda: come mai il film di James Gray ha riscosso così tanti elogi – per Gli Spietati è stato addirittura il miglior film dell’anno – pur raccontando una storia semplice e lineare? Risposta: perché lo fa bene. Perché lo fa sottovoce senza erigere in alto i sentimenti.
Se Two Lovers fosse una stagione sarebbe l’autunno, se fosse una parola sarebbe malinconia. È questa l’aria che tira nella pellicola, dove un Leonard come tanti (come me, come voi, come noi) si trascina dietro un macigno di nome tristezza, e in quest’esistenza amara alcuni coltelli continuano a rigirarsi nella piaga: cicatrici sui polsi, foto sul comodino. La sua visione del mondo, un bianco e nero fotografico, si colora con una Michelle come tante, la vicina che non gli sta affianco ma sopra, di qualche piano. E nel frattempo una Sandra (come, lo sapete) vive la A di amore senza sapere niente, affidandosi a Leonard.

Il cinema americano tritatutto perde spesso e volentieri il senso della misura, Two Lovers è invece un film a misura d’uomo. L’empatia di questo triangolo rettangolo amoroso, laddove il vertice alto Leonard si trova a dover percorrere un’ipotenusa ben al di là delle sue possibilità per raggiungere Michelle, è tanta: perché la storia ci appare reale (i genitori ansiosi), sincera (Leonard mente a Sandra, affanculo il buonismo) e tenera (quel love scritto in punta di dito sul braccio di Michelle).
Il merito di Gray sta nell’aver fatto entrare la vita in un film, senza cercare inutilmente di rinchiuderla in luoghi ultracomuni che finiscono per esasperarla. Beninteso, in quest’opera ci sono momenti ab-usati, vedi la dichiarazione di Leonard a Michelle, in-credibili, vedi l’incontro tra i due e relativo scambio di numeri telefonici, e in-verosimili, vedi l’invito a cena di lei con fidanzato a Leonard che la conosceva da qualche giorno. Tuttavia questi episodi non sono né patetici né retorici. Accadono per una loro ragione che guardando la pellicola si intuisce, convincendosi che poteva e doveva andare così.

Joaquin Phoenix, sempre in bilico tra stati euforici e crisi depressive, ne esce proprio bene. Goffo, scambia una bacchetta per una cannuccia, bastardo nel celare la sua relazione a Sandra, umano nel finale in cui cerca di portare avanti questa cosa che chiamano vita (“sono felice”). Davvero bravo l’attore portoricano. La Paltrow è difficile inquadrarla in un contesto diverso dalle rom-com, ascolta me, Gwyneth, che di recitazione non ne so un pene, puoi fare di più, dài eh. Gradito il cammeo di Isabella Rossellini.

Senza troppi proclami come il film in sé: bello Two Lovers, l’uomo oltre il fondo dice sì.

giovedì 25 febbraio 2010

Il fantasma

Sergio, giovane netturbino gay tendente alla perversione, conduce la sua esistenza tra cassonetti dell’immondizia da svuotare, “dialoghi” con il suo cane e freddi rapporti occasionali. Di notte però il ragazzo si trasforma, diviene il fantasma vestito d’una tuta in latex nera che si aggira per le strade di Lisbona cercando di soddisfare i suoi istinti più trasgressivi.

O fantasma (2000), primo lungometraggio del regista portoghese João Pedro Rodrigues, fu presentato al Festival di Venezia di quell’anno creando il classico scandalo. Ad indispettire furono scene di sesso orale tra due uomini, masturbazioni nature, e più in generale una visione del sesso fortemente deviata.
Rodrigues, recidivo poiché prima di questo film aveva girato un corto intitolato Parabens! (1998) che anch’esso affrontava il tema dell’omosessualità, costruisce un’opera scarna, priva di musica, e non parlo solo di una colonna sonora, ma anche e soprattutto di un’armonia interna, della consequenzialità e causalità degli eventi. Sebbene vi sia una traccia che permette al film di non perdersi totalmente (mi riferisco a: stato iniziale di Sergio –> incontro col ragazzo –> “innamoramento” e pretesa dell’oggetto sessuale), la fabula, ossia la descrizione degli eventi secondo la loro naturale successione e il sjuzhet, ovvero l’intricarsi e il rimescolarsi di tali eventi, si confondono terribilmente. Il fantasma è un film sconnesso in cui il regista gioca a fare l’Autore senza riuscirci; non basta una messinscena cupa ed uno stile laconico che va quasi contro l’idea di bello per ottenere l’effetto contrario, ossia per farsi piacere. Mi pare un po’ il discorso che avevo fatto con Battaglia nel cielo (2005): per cercare di rendere più accattivante una storia gli è stata data una forma naif che non giova alla metabolizzazione della pellicola. Anche se rispetto a Reygadas che aveva utilizzato un’estetica soporifera, Rodrigues si avvale di uno stile leggermente più accattivante, meno realistico e più metafisico.

Di positivo mi piace evidenziare il taglio con cui è stato trattato l’argomento sesso. È un taglio morboso e impulsivo che ben rappresenta la carica istintuale del protagonista. Certo, c’è un calippo in primo piano non semplice da giustificare, eppure trovo molto più gratuite perché immotivate, perché dozzinali, le avventure erotiche dei ragazzini di Ken Park (2002).
Il finale, forse rivalutabile ad una seconda visione, è il crollo aberrante di Sergio che non riuscendo più a sottrarsi ai suoi fantasmi, diviene uno di loro, anche di giorno, arrendendosi all’istinto. Ma il regista ci aveva già lanciato qualche segnale in precedenza con gli approcci del ragazzo all’amplesso che sembravano più animaleschi che umani.

Il fantasma non può di certo essere un film inseribile nella cerchia dei consigliati, ma se proprio dovessi fare una cernita tra quelli sconsigliati, questo potrebbe rientrarci.

lunedì 22 febbraio 2010

Perdizione

Karrer è un uomo che ha perso tutto, anche la voglia di vivere. Passa le giornate a fissare i carrelli della teleferica dal suo appartamento nella speranza che un secondo dopo impazzisca per sempre. Invece costringe se stesso a vagare senza meta per finire sempre nel medesimo locale. Infatuato della cantante che lavora nel bar, Karrer cerca di invischiare il marito in un losco affare per approfittare della donna. Ma nonostante riesca nel suo intento, alla fine sarà lui a subire la con-danna più pesante.

Visione tortuosa, letargica, cupa. Difficile.
Meglio partire dalle certezze: Béla Tarr abbandona quasi del tutto i dialoghi corposi che fino a Kárhozat (1988) avevano caratterizzato il suo cinema, lasciando di torrenziale solo una pioggia biblica che non abbandona mai la scena. L’atmosfera perennemente pumblea che dà un tono diroccato alle vie infangate della cittadina, ad un passo dallo sfacelo, simili a quelle di Totò che visse due volte (1998), è in totale sintonia con le miserie umane che si consumano sullo schermo.
E Tarr è lì, sornione, che riprende tutto. I movimenti della sua macchina sono lentissimi, si spostano su un asse orizzontale che occupa lo spazio massimo a disposizione. L’obiettivo non si focalizza sugli attori di cui spesso sentiamo solo la voce fuori campo, ma scorre placido alle spalle di colonne che rivelano esseri umani statici, imperturbabili. Ecco, un aggettivo che mi verrebbe da attribuire a Damnation è “congelato”. Il regista magiaro sospende a mezz’aria il tempo filmico la cui contestualizzazione è un procedimento impossibile da attuare: dove si svolge la vicenda? Quando? Potrebbe essere in qualunque luogo, in qualunque momento.

Se dalla claustrofobia alienata di Almanac of Fall (1985) alla desolazione pur sempre alienante di questa pellicola il salto è ardito ma vale la pena provarlo, dal punto di vista dei contenuti Tarr dimostra una complessa maturazione lasciando molto al non detto in favore di immagini che sembrano cartoline metafisiche provenienti dall’inferno o zone limitrofe. Il salto, ‘sta volta, è ancora più arduo perché l’assenza di una qualsiasi forma di ritmo potrebbe spazientire anche lo spettatore più avvezzo ad un certo tipo di cinema.

In fin dei conti si può dire che Perdizione sia un film che richiede un’attenzione costante dove i significati sono dati più dalla mdp che dalla storia rappresentata. Avventurarsi in questo mondo fradicio e dannato è un’esperienza. A tratti visivamente soddisfacente, a tratti semanticamente disagevole. Difficile, appunto.

venerdì 19 febbraio 2010

Paranormal Activity

Il problema del film non è la trama (trama?!?) ridicola, né la (voluta) povertà tecnica, né la recitazione da filodrammatica che ricorda curiosamente le parti non-porno dei film porno (in questo aiuta il doppiaggio, imbarazzante). È che non fa paura, nemmeno per un istante. (Alberto Crespi, L’Unità, MyMovies)

Il funzionamento o no della suspense è cosa alquanto personale. C’è da dire che la tiritera a lungo andare stanca, non mantiene una tensione costante e, sebbene ricerchi nella verosomiglianza degli attori un perno per immedesimare lo spettatore, questa risulta un po’ carente (a parte qualche urlo o piagnucolio, rimaniamo stupiti dal self-control generale). Per non parlare del finale che sconvolge per prevedibilità.
(Marco Compiani, Gli Spietati)

La storiella paurosa non regge la durata e di paranormal c’è solo la noiosity di un Rec ostinato. (Alessio Guzzano, MyMovies)

State lontani da questa bufala se non avete quattordici anni, brufoli causati da mcdonaldite acuta e residenza in qualche città statunitense. (Elvezio Sciallis)

La cosa veramente paranormal di questa pellicola è il fatto che il programmatore Peli, classe 1971, possa essersi comprato una casa così grossa con tanto di piscina: ma che diavolo programmava?! Morale del film: ho sbagliato lavoro. (eXXagon)
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… e via così. Certo, le varie opinioni estrapolate dal discorso generale possono travisare il significato che ogni singolo critico ha illustrato nella propria recensione. Ad esempio eXXagon non spara a zero come hanno fatto altri (vedi Sciallis), tuttavia queste citazioni sono il sunto preciso e puntuale di quello che penso su Paranormal Activity. E per rafforzare il concetto aggiungo un’immagine esplicativa:

martedì 16 febbraio 2010

Gemini

Giappone, inizi del ‘900. L’esistenza di Yukio, stimatissimo dottore, viene sconvolta dall’arrivo di un uomo tale e quale a lui che gli uccide i genitori, si appropria della bella Rin, la moglie senza memoria, e lo getta in un pozzo profondo rubandogli la sua vita. Ma le cose, forse, non sono come sembrano…

Pregevole incursione di Tsukamoto nella fiction in costume che vira nell’horror, molto ma molto lontana sia stilisticamente che tecnicamente dai suoi lavori precedenti. Il regista giapponese abbandona per la seconda volta (non dimentichiamoci di Hiruko the goblin, 1991) le atmosfere cyberpunk del passato fatte di immagini in b/n allucinato, per mettere in scena un film più sobrio tratto da una novella di Edogawa Ranpo.
L’eleganza anche geometrica degli spazi (vedere la camera da letto della coppia o il pozzo cilindrico) viene esaltata da Tsukamoto che si dimostra comunque a suo agio in una pellicola più “rallentata”. Vera gioia visiva sono le rappresentazioni anacronistiche della plebe che disegnano (è il caso di dirlo) un forte contrasto con i ceti più alti. Se i ricchi sono ligi ai colori scuri o bianchi senza via di mezzo, i poveri indossano vestiti tutti rattoppati e deliziosamente sgargianti. Una contrapposizione che forse è l’esteriorizzazione delle coscienze, difatti il padre medico di Yukio (colori freddi = Thanatos) abbandonerà il suo gemello nel fiume perché deforme, mentre all’opposto l’uomo che raccoglierà sulla riva Sutekichi è un poveraccio vestito con pezze variopinte (colori caldi = Eros). Questi magnifici abiti, che probabilmente derivano dalla formazione artistica di Tsukamoto, mi hanno ricordato quelli di Miike in Imprint (2006), e guarda caso lo stesso Miike ha girato il documentario The Making of Gemini (2000).

Se la tecnica utilizzata cambia, il contenuto resta all’incirca invariato. O meglio, viene approfondito, rielaborato. Anche questa volta c’è una donna che muove i meccanismi della storia come in Tokyo Fist (1995), e ancora una volta c’è il mutamento fisico come dannazione o esperienza salvifica. In Gemini, però, la metamorfosi è più che altro un’evoluzione perché Sutekichi compie un passaggio ascendente da reietto a uomo “accettato”, mentre nei film precedenti la trasformazione era per gli attori l’apertura di una botola sopra l’abisso. È anche palese che qui la mutazione ha un’accezione positiva solo formalmente, perché ad un livello interpretativo il gemello cattivo pur diventando “bello” compie azioni assolutamente spietate.
In questo quadro mi sembra giusto porre alla vostra attenzione il diabolico legame che Tsukamoto costruisce fra i due gemelli. Come nell’equilibrio di una bilancia: togliendo peso ad un piatto esso si alza mentre l’altro sprofonda, ossia al disumanizzare Yukio gettandolo nel pozzo e di fatto facendolo diventare un mostro, Sutekichi acquista umanità, si eleva. In qualche modo ri-nasce, gettando il fratello in un limbo (un canale vaginale? Notare la posizione fetale del frame sotto) ad un passo dalla morte.
L’unico dubbio è dovuto alla fuga di Yukio dal pozzo. Come ha fatto? Potrebbe essere una mia svista, perciò confido nel vostro aiuto, amici lettori.

Gemini: consigliato a gran voce.

venerdì 12 febbraio 2010

Alien Abduction

AH AH AH, che stronzatona!
Prevedibile, visto che a produrre Alien Abduction (2005) è l’Asylum. Per chi non lo sapesse Asylum è specializzata nel fare film che sono stati denominati da Empire Magazine mockbusters. Cos’è un mockbusters? È un’opera che assomiglia ad un’altra più famosa (blockbuster) fino a sfiorarne il plagio. Giusto due esempi: a Transformers (2007) di Bay, Asylum rispose lo stesso anno con Transmorphers. Oppure al “caso” Paranormal Activity (2007, ma salito alla ribalta solo di recente) la casa americana ha prontamente risposto con Paranormal Entity (2009) che si dice sia stato girato in soli due giorni. Insomma, l’andazzo è questo, e, aspetto non da sottovalutare, tutti i film pare siano di una qualità infima. Io non mi ero mai imbattuto in una pellicola by Asylum perché nel mio periodo di visioni autopunitive avevo patriotticamente preferito le trashate di Polselli e compagnia bella. L’unico motivo per cui ho guardato Alien Abduction è dovuto al fatto che da un certo periodo sono alla ricerca di opere che trattano il tema “alieni” in maniera diversa, ma visto che fino ad oggi la caccia si è rivelata poco soddisfacente, penso che la abbandonerò. Con questo film di Eric Forsberg (habitué dell’Asylum) ho toppato di brutto perché la questione E.T. è solo un pretesto per mostrare qualche trucidità varia. In pratica si parte con un gruppo di amici che allegri e spensierati banchettano in un bosco. Ma gli alieni brutti e cattivi li rapiscono per fare loro tanto male. Le fattezze dei suddetti suscitano ilarità a iosa in quanto sosia sfigati di Predator con annesse braccia ologrammate, roba che quelli di Progeny (1999) sono fatti da Rambaldi. Comunque, rispediti sulla terra, i giovani si trovano in un ospedale militare specializzato nel trattare persone addotte. Mentre Jean sembra essere cosciente di ciò che è successo, gli altri del gruppo sono totalmente rimbecilliti (non che prima fossero delle cime, eh), così Jean si mette furtivamente a girovagare in questa specie di lazzaretto comandato da una Ilsa dei giorni nostri, fino a scoprire la verità. Yuppi.

Stare qui ad elencare cosa non va nel film mi pare una cosa inutile. Al massimo potrei dire che al di là degli effetti speciali da terzo mondo, l’aspetto negativo più eclatante è l’uso della mdp durante le scene più concitate. Ma uno scempio immane proprio! Le colluttazioni tra Jean e i soldati, o tra gli umani e gli alieni sono fatte di un male che quasi è difficile da spiegare. Sembra che Forsberg in certi punti vada fuori tempo nel riprendere ciò che accade, del tipo: A tira un pugno a B, noi non vediamo la sequenza in maniera fluida ma prima A che sta per sferrare il destro e poi B che se lo prende.
Inizialmente l’atmosfera verdognola dell’ospedale non mi stava dispiacendo, poi pian piano la situazione degenera, e quello che probabilmente era il capannone dell’Asylum si mostra in tutta la sua bruttezza. Che altro… ah sì! Sonoro pessimo come le riprese effettuate con la videocamera da parte della protagonista.
L’onore della scena più schifosamente laida di morte se la guadagna quella in cui un mad doctor trastulla gli zebedei di un alieno per i suoi esperimenti, e manco a dirlo lo sperma marziano va a colare proprio sotto la barella dove era nascosta Jean. Poveretta l’attrice Megan Lee Ethridge, a volte sembra anche mettersi d’impegno, poveretta… (avviso: mostra le tette, piccole, a ufo).

Consigliatissimo per spegnere il cervello. Il giusto intermezzo tra un von Trier e un Tsukamoto.

martedì 9 febbraio 2010

Le cinque variazioni

Nel 1967 il regista danese Jørgen Leth diresse un corto intitolato The Perfect Human (qui e qui per vederlo) in cui una voce fuori campo commentava le azioni di un tipo smilzo su uno sfondo totalmente bianco.
Probabilmente se quella sagoma di Lars von Trier non si fosse preso la briga di fare questo pseudo documentario, qui da noi nessuno si sarebbe mai filato né Leth né L’essere umano perfetto. E aggiungo che forse saremmo sopravvissuti comunque.
Ad ogni modo nel 2003, ancora pervaso da un’onnipotenza dogmatica, quel simpaticone di Lars decide di imporre al suo collega cinque vincoli per il rifacimento di altrettanti remake del corto. Ogni vincolo comporta delle costrizioni parecchio impegnative che mettono in seria difficoltà Jørgen Leth: si parte con l’obbligo di girare con scene non più lunghe di 12 frame, passando all’imperativo di ambientare il film nel luogo più povero del mondo, per proseguire nell’assenza di diktat lasciando a Leth totale libertà, finendo con il compito di fare un cartone animato, per terminare nell’estromissione del regista più anziano dall’ultima variazione.

Quella canaglia di Trier, che qui si dimostra altezzoso come sono molti dei suoi film, l’ha pensata davvero bella, almeno in teoria. Le cinque ostruzioni – che da noi sono diventate "variazioni" – comandate al quasi impaurito Leth, diventano un simposio al caviale molto interessante per provare a capire il "fenomeno" von Trier.
L’operazione era già stata effettuata attraverso modalità differenti con Epidemic (1987), ovvero Trier aveva tentato di esplicitare l’ideologia che sottende la sua visione di fare film, facendosi riprendere mentre… lo fa. Questa volta il regista danese si serve di un collega che pensa e agisce il, e nel, cinema, in maniera opposta alla sua. Leth viene ammonito da Trier per il suo eccessivo distaccamento dal mezzo che gli impedisce di rimanere "segnato", e per l’essere troppo equilibrato ed incapace "di fare una cagata", parole di Lars.

A parte la presunzione costante, vedi l’ultima variazione che è una lettera scritta da von Trier stesso in cui se la canta e se la suona, comprendo quello che avevo già intuito con i suo lavori precedenti: a lui degli spettatori non gliene frega un emerito cazzo. Cosa si può pensare di uno che è contento se gli è uscita fuori una cagata? No, sul serio ditemi voi. I film che fa sono sostanzialmente il frutto delle sue masturbazioni mentali, e questo non significa che siano cose "brutte" tout court (Dogville anyone?) perché si può avere stile anche nel farsi le seghe, ma di certo non vale la pena arrabbiarsi come aveva fatto il sottoscritto per Le onde del destino (1996), poiché con la vostra incazzatura Lars non si farà altro che una grassa risata seduto sulle comode poltrone della sua Zentropa.

Comunque se la struttura teorica de Le cinque variazioni è intrigante, il mero aspetto formale vive di alti e bassi. Onestamente vedere Leth misurarsi nelle riprese dei suoi film non è particolarmente entusiasmante perché sembra di assistere ad un qualunque making of videoclipparo. L’attenzione invece si cementa quando i due registi dialogano tra loro esternando i propri punti di vista. Oddio, più che altro sembra che Trier parli da un piedistallo dorato ed il povero Leth sia lì ad ascoltare la voce divina, però vabbè, a von Trier dopo questo film inizio a volergli un po’ bene nonostante tutto, perché ho capito che in fondo è un gran burlone.