lunedì 20 novembre 2023
Tentare bei cieli più tersi
Promontorio
A fianco del mio appartamento vive una ragazza madre che si chiama Aisha, è eritrea, etiope o somala, le vorrei chiedere se da giovane nel suo Paese è stata infibulata e se sì come ha fatto a rimanere incinta e poi a partorire, ma finora non sono riuscito ancora a chiederle nulla perché credo di amarla e l’idea di tentare un qualsiasi approccio mi fa sentire un totale imbecille, l’unica occasione in cui è avvenuto una specie di contatto è stato quando durante un’assemblea di condominio Aisha ha preso parola davanti a tutti dicendo che da un po’ di tempo è molto spaventata perché è capitato diverse volte che qualcuno le abbia suonato al campanello nel cuore della notte e che guardando dallo spioncino abbia visto una figura maschile incappucciata ferma sul pianerottolo, e dicendo queste cose i nostri sguardi si sono per un attimo incrociati e io le ho fatto un mezzo sorriso ma non sono riuscito a vedere se sia stato corrisposto, nel frattempo, di sera, prima di addormentarmi, appoggio sempre l’orecchio alla parete cercando di captare qualcosa, una voce, la tv, l’acqua della doccia che scorre. La sua bimba ha appiccicato lungo le scale una serie di stickers a forma di unicorno che si illuminano al buio, quando sono ubriaco marcio e ritorno a casa barcollando quegli adesivi sono le mie stelle e la mia bussola, senza di loro, senza di lei, sarei perso.
L’altro giorno sono stato da una prostituta cinese, ho trovato il numero su un sito di annunci, ho chiamato e mi ha risposto una voce delicata che mi ha fornito l’indirizzo preciso dell’abitazione, così mi sono presentato puntuale all’appuntamento con in bocca un gomma alla menta extra forte, la donna che mi ha aperto la porta avrà avuto almeno cinquant’anni, piccola, con la frangetta, tutta nervi e finti sorrisi, era la mamasan che prendendomi per mano mi ha portato nel cesso facendomi capire che avrei dovuto aspettare lì fino a che in camera il cliente prima di me non avesse finito. Certo che sentivo un vuoto, e guardando quelle piastrelle che mi ricordavano il bagno di mia nonna il vuoto era diventato una voragine, una parte di me voleva andare via, l’altra, appena la mamasan è riapparsa sulla soglia, mi ha spinto a percorrere il corridoio che terminava nella camera da letto, dentro c’era una ragazza con addosso della lingerie dozzinale, la mamasan le ha detto qualcosa in cinese (forse che desideravo fare i preliminari scoperti) e poi è uscita, la ragazza allora in un misto tra italiano e inglese mi ha detto di essere coreana, sentendo ciò le ho risposto che anni fa ero stato a Seul, non credo abbia capito come io non ho capito perché doveva vendersi per ciò che non era, e a questa cosa ci ho pensato ancora dopo una volta uscito da lì con cinquanta euro in meno nel portafoglio: che differenza avrebbe fatto se fosse stata indonesiana, mongola o thailandese? Poi ho pensato che anche a Seul, nella zona di Cheonho, una specie di risposta orientale alle vetrine olandesi, ero stato con una prostituta che mi aveva detto di essere cinese. Questo vuoto, questa faglia che ci portiamo nello stomaco, non se ne va via con una banale eiaculazione, è una roba che ti agguanta l’anima e giorno dopo giorno ti divora da dentro. Kafka aveva capito tutto, noi non abbiamo capito niente.
Io non ho molti ricordi di infanzia, ma ne ho uno apparentemente anodino che però è come un quadro appeso nella parete della mia memoria: è estate, io sono in macchina con i miei genitori, dalla radio viene fuori La mia banda suona il rock di Fossati, non capisco niente di quelle parole ma il ritmo che la fa vibrare mi permette di sentire una tremenda nostalgia verso il futuro perché poi, vent’anni dopo, riascoltando quella canzone proverò un senso di malinconia nei riguardi del passato, ma prima vedo mio padre che scende giù dalla salita con una borsa frigo rigida, dentro deve esserci qualche bibita, forse una birra e l’insalata di riso più qualche panino con il prosciutto nel caso avessimo ancora fame, sulla spalla sinistra ha imbracciato l’ombrellone riposto nella sua federa, mamma mi tiene per mano, ha dei sandali da cui spuntano le sue unghie smaltate di rosso, però lo smalto è un po’ sbeccato e ora che ripenso a questo piccolo dettaglio sono pervaso da una specie di tenerezza, mi sembra che l’irregolarità dello smalto sia il simbolo della nostra posizione sociale, e prima ancora, prima di partire per il mare, sono nel letto della mia cameretta che di notte mi appare immensa, la sera ho visto una trasmissione su Italia 1 che parlava di rapimenti alieni, mi immagino cosa potrebbe accadere se dalla porta sbucasse una mano fosforescente e io, immobilizzato dalla paura, venissi trascinato via e portato a bordo del disco volante per essere usato come cavia nei loro esperimenti, dopo, dopo il mare, ritorniamo indietro e io ho un sonno che quasi mi sento morire, adesso la radio passa Oro di Mango o Con il nastro rosa di Battisti, non ce la faccio più, chiudo gli occhi e li riapro davanti ad uno schermo dove una donna è attorniata da una decina di uomini che si masturbano in cerchio.
Non ho dubbi nel dire che la mia parola preferita in inglese è coping, e si tratta di una parola che avevo completamente rimosso fino a che, durante una convention nazionale dell’azienda per cui lavoro, è di colpo tornata a galla e lo ha fatto per merito di una sedia a rotelle, o meglio di una persona seduta su questa sedia, ed è andata così: sul palco il presidente stava parlando di fatturato, di crescita, di investimenti e chissà di che altro, tutto ciò fino a quando verso la fine del suo intervento ha chiesto ad un nome e cognome che non sono riuscito a captare di raggiungerlo sul palco, a quel punto alla mie spalle si è fatto largo un cigolio che mi ha spinto a girarmi per vedere avanzare sulla moquette una carrozzina condotta da un giovane dal sorriso emozionato, e lì sopra uno scheletro con un po’ di pelle attaccata, un uomo avvolto in un montone oversize quando nella sala ci saranno stati almeno venti gradi, giunto dinnanzi al presidente l’ex commercialista, perché di questo si trattava: un professionista che all’epoca aveva dato una grossa mano per l’apertura della società, ha ricevuto il microfono e con una fatica che io e tutti gli altri siamo riusciti a percepire come se fosse la nostra, ha diffuso la sua voce a singhiozzo in tutta la platea, e ciò che è uscito dall’impianto di filodiffusione è stata una specie di carezza perché l’uomo ha detto con grande trasparenza che era molto contento di essere lì con noi e che ci voleva davvero bene. Uscendo ho ripensato al fatto che con ogni probabilità non avrei mai più rivisto quel signore e che per ragioni che non hanno nulla a che fare con me o con i miei colleghi, anche io, nello spazio di quel contatto sfuggente, ho sentito di volergli bene.
L’oscurità è ormai una campana di vetro che mi imprigiona, ho deciso che sarebbe stato questa sera perché ho rimandato per troppe sere, praticamente tutte quelle della mia vita fino ad oggi. Così mi sono guardato allo specchio e nel riflesso ho rivisto mio padre, poi ho messo una felpa col cappuccio, ho preso le chiavi della macchina e ho lasciato quelle di casa appese al chiodino vicino all’attaccapanni. Uscendo ho schiacciato il campanello di Aisha, quella breve scossa elettrica ha risuonato nelle scale come un raggio laser alieno, ho giusto sentito i suoi passi incalzinati arrivare fino alla porta e poi sono andato via. La città ancora intrisa di buio è così come l’ho sempre vista: una frontiera sopravvissuta ad un attacco nucleare, non c’è nient’altro intorno se non macerie e detriti dove si nascondono relitti umani che si iniettano in corpo le peggiori droghe o che succhiano i peggiori cazzi in cambio di qualche spicciolo, vorrei essere cieco, vorrei poter volare via ma in mancanza di ali, e quindi del cielo, dovrò accontentarmi dell’abisso. Sono arrivato lì dove una macchia verde inizia a digradare dolcemente verso il mare, mi sono spogliato di tutto e l’erba ha cominciato a condurmi in basso fino a che la sua consistenza filacciosa ha lasciato il posto alla rotondità dei sassolini che da asciutti si sono fatti bagnati, così come sono bagnate le mie caviglie, le mie tibie, adesso anche i miei testicoli che si ritraggono per il freddo. Ho quindi proseguito il mio cammino e anche quando l’acqua mi ha sfiorato le narici fino a farmi scomparire, ho scoperto che potevo respirare sotto la superficie e che la gravità proseguiva il suo lavorio fisico anche sul fondo del mare, allora ho camminato lungo un sentiero illuminato da pesci lanterna, le mie stelle, la mia bussola, fino a giungere su uno scoglio piatto dove mi sono raccolto in posizione fetale, dopo un periodo che potrebbe essere di un giorno come di cento anni, ho sentito un abbraccio che mi ha avvolto da dietro, non ci ho messo molto a capire che il mio me-merda era finalmente tornato al suo corpo originale, e questo mio fantoccio escrementizio avvicinandosi all’orecchio mi ha detto con fare materno che adesso non dovevo più preoccuparmi di nulla, che non c’era più niente da cercare o da scrivere, che adesso c’era solo da aspettare la Fine.
sabato 18 novembre 2023
Noche En El Jardín Salvaje
Le poche (e uniche) righe che accompagnano Noche En El Jardín Salvaje (2015) dicono comunque tutto quel che c’è da dire, che è sostanzialmente niente perché nei sei minuti di girato non succede alcunché di meritevole, se non, ma questa è solo una deformazione professionale che mi spinge a visionare più titoli possibili di un dato regista senza che vi sia una concreta motivazione di fondo, la constatazione che Miguel Llansó, aiutato dal fratello Guillermo che ha sempre orbitato nelle sue produzioni, è un tipo eclettico, oltre che abbastanza fuori di senno, e che quando non è in giro per l’Etiopia a filmare situazioni e personaggi assurdi (ricordo il coevo Crumbs), il suo tasso di bizzarria non viene meno, anzi, se ripensiamo al precedente Perro Líquen (2012) e lo rapportiamo a Noche... ecco che abbiamo una “bella” coppia di lavori imperscrutabili. Qui l’accorgimento che visivamente spicca è l’utilizzo del timelapse (o è stop-motion? Mica so riconoscere bene la differenza...) praticamente per ogni fotogramma, il che incrementa l’atmosfera stramba del corto già assestata su un livello alto con il protagonista dotato di parruccona bianca, tunica e occhiali da carnevale. Il soggetto in questione dialoga con una voce off a proposito di un pregevole suono ascoltato un anno prima e che entrambi vorrebbero tanto risentire, nell’attesa il cielo notturno è solcato da stelle cadenti e le fronde del bosco ondeggiano per il vento, c’è un senso notturno, un odore nemorale, forse, ma proprio forse, anche una sottile inquietudine bilanciata da dosi di ironia (“il prossimo anno sarò in vacanza in Tunisia”), ma nello specifico cosa sia il suddetto giardino selvaggio, che cosa dica o faccia il tipo imparruccato o più in generale quale siano i perché e i percome di questo lavoro breve sono quesiti ai quali non sono minimamente in grado di rispondere.
venerdì 17 novembre 2023
Dakar
Dakar (2020) è un cortometraggio che non ha nessuna qualità capace di farmi sobbalzare sulla sedia, è un lavoro che ha le sue caratteristiche ben definite alle quali riconosco una rispettabile professionalità, ma che resta congelato nella sterminata galassia delle produzioncine festivaliere, nello specifico fu il Thessaloniki International Film Festival. Stelios Moraitidis, il suo regista classe ’90 il cui film precedente, Deconstructing Interruption (2016), dovrebbe essere una sorta di backstage dell’Interruption (2015) di Yorgos Zois, si gioca la carta epistolare utilizzando il cinema come contenitore di emozioni impresse su una missiva che materialmente non esiste più se non nel nastro di una vecchia cassetta, il punto, però, sta per chi scrive proprio nel concetto di “contenitore”, l’impressione è che la settima arte qui sia esclusivamente usata come un recipiente: giro una storia su un amore passato finanche perduto e lo riverso in uno spazio filmico di dieci minuti scarsi, bon. Mi è mancata una valida tessitura tra la sezione chiamiamola narrata e la scelta delle immagini urbane, di questo vagare per Atene da parte del protagonista. Non è una roba facilissima da spiegare quella che voglio esprimere, di opere che hanno un’impostazione similare a Dakar ne sono passate parecchie da queste parti, e alcune, di cui non farò i nomi per non ripetermi ma l’origine, l’archè, rimane e rimarrà per sempre Chris Marker, avevano una concertazione, un senso di insieme, di meraviglia, di energia che Moraitidis non è riuscito a imprimere. Io ci ho visto solo la superficie, ovvero un vecchio che vive il presente nel rimpianto del passato mentre intorno a lui il mondo continua a scorrere incurante, ed è, appunto, una superficie che pare anche un tutto, ma non in un’ottica totalizzante, un tutto di ordinaria levatura.
giovedì 16 novembre 2023
Notturno
Trattandosi di Rosi sappiamo che il livello estetico non può che assestarsi su un piano elevato, per alcuni critici forse troppo elevato al punto da creare uno scollamento tra la forma e il contenuto. In effetti, se si esclude il lavoro giovanile Boatman (1996), il cinema di questo autore ha subito un progressivo processo di estetizzazione tanto da trovarmi d’accordo con le parole di Leonardo Gregorio nella sua recensione su Gli Spietati (link) nella quale viene proposto un parallelo solo in apparenza azzardato con Paolo Sorrentino. Quando la patinatura di una pellicola prende il sopravvento su tutto il resto si ha come la sensazione che le tematiche affrontate si inaridiscano di fronte ad una messa in scena tirata ostinatamente a lucido, non so se sia un’impressione errata o un pensiero troppo intransigente, fatto è che in Notturno (e, dato che è stata una visione recentissima, anche, ad esempio, in È stata la mano di Dio, 2021) le immagini a tratti prevaricano sui possibili significati, non è che li inglobano in sé, li schiacciano proprio, il che non sarebbe affatto un difetto per certi esemplari cinematografici (e infatti per Sorrentino la riflessione è meno calzante), ma qui, in una prospettiva che si prefigge di cogliere la realtà, e nello specifico una realtà dura, difficile, complessa, una ricerca formale di tal fatta genera una sorta di idiosincrasia, come se l’urgenza di quei luoghi venisse coperta da una bellezza che forse non era così necessaria.
Non so, Rosi continua a mettermi in difficoltà, ma non è un mettermi alla prova, non è un cimentarsi con qualcosa di arduo da vedere, da capire, è più un ragionare senza troppa convinzione su un risultato che altrove produce risultati di ben altro spessore attraverso metodi meno appariscenti (penso sempre a Sylvain George), ciò non toglie che comunque qui vi siano scampoli di lucore che sono felice di aver visto, a prescindere dalle modalità espositive non capita tutti i giorni di entrare dentro ad un manicomio a Baghdad oppure ascoltare i messaggi vocali di una donna rapita dall’ISIS inviati alla mamma. Quindi non c’è un quindi e neanche una conclusione, Rosi è un signor professionista e questa è la sua idea di settima arte, nello sterminato panorama contemporaneo mantiene una posizione rispettabile, l’importante è sapere che esiste anche dell’altro.
mercoledì 15 novembre 2023
The Second Best
Eh, insomma, non proprio alla grande mi pare. Va bene che il regista spagnolo darà il meglio di sé nei due lungometraggi successivi, però anche nei suoi esemplari giovanili, seppur caotici e raffazzonati, permaneva sempre una qualche scintilla di estro (vedi Chigger Ale, 2013), in The Second Best il discorso è decisamente semplificato fino, me lo si conceda, ad essere appiattito. Non vi è la minima ricerca concettuale né l’interesse a vivacizzare la scena, l’intento è chiaramente quello di fornire il ritratto biografico di un atleta che al di fuori dei confini nazionali non ha mai ricevuto i riconoscimenti che meritava (a precisa domanda Bikila rispose che lui era il “migliore secondo” in Etiopia, lasciando piuttosto sgomenti i cronisti che Biratu non sapevano chi accidenti fosse), se ad uno spettatore tanto basta allora è libero di accomodarsi, per gli affamati visioni vere allora è meglio direzionarsi altrove.
martedì 14 novembre 2023
Bait
Paradossalmente gli aspetti che più mi hanno impressionato sono anche quelli che ho trovato potenzialmente più criticabili, dal punto di vista della sintassi il flusso che riceviamo colpisce con discreta efficacia, è tangibile un’attenzione quasi maniacale per non dire ossessiva ai dettagli (sulle banconote e sui pesci, due istanze messe in dialogo visivo seguendo la traccia menzionata prima passato vs. presente/futuro) oltre che una serie di accorgimenti non proprio convenzionali, prendiamo l’insistenza sui primi piani che fanno del film una specie di western acquatico d’oltremanica o l’impianto sonoro che è stato inserito in toto in fase di post-produzione. Insomma, tira un’aria inusuale eppure, almeno per il sentire del sottoscritto, non si riesce a sfondare la porta della straordinarietà, è come se una volta tirata via questa corteccia artificiale Bait riveli una nudità meno interessante della sua stessa superficie, ché se qui c’era da riflettere sul capitalismo e derivati concettualmente non riesco a catalogare lo sforzo di Jenkin come memorabile, apprezzabile all’incirca sì, ma memorabile no.