giovedì 30 aprile 2020

DAU. Natasha


IL PROGETTO DAU

C’è un folle che si aggira per la Russia, questo folle si chiama Ilya Khrzhanovskiy.
Tra il 2009 (ma alcuni siti riportano il 2008) ed il 2011 allestisce in Ucraina, presso la città di Charkiv, una gigantesca struttura che ricrea in maniera certosina un fantomatico Istituto sovietico (è la riproduzione di un centro di ricerca segreto ubicato a Mosca che fu attivo dal 1938 al 1968), in un’area di riprese da oltre dodicimila metri quadrati che pare si sia guadagnata la nomea di set più grande d’Europa (e si presume anche del mondo) dove, attraverso un poderoso sforzo produttivo tra Europa e Russia, ha costruito una specie di realtà parallela perfettamente abitabile, vivibile, si dice infatti che centinaia e centinaia di “attori”, divenuti tali poiché parte concreta del progetto ma entrati dentro ad esso come tecnici, scienziati, filosofi e via dicendo, abbiano vissuto per davvero all’interno di questa ciclopica Synecdoche, New York in salsa stalinista (e quindi abbiano indossato gli abiti d’epoca e mangiato e bevuto cibi di quel periodo) facendo sì che la distanza tra ciò che erano ed il ruolo che interpretavano si assottigliasse fino a svanire. Non è chiaro con quali modalità ma ci sono molti nomi di celebrità anche al di là dell’universo cinema che hanno fatto parte di DAU: Gerard Depardieu, Marina Abramović, Willem Dafoe, Charlotte Rampling, Brian Eno, perfino il nostro Carlo Rovelli che, insieme a Gianluigi Ricuperati (lo scrittore dall’esperienza ne ha tratto il romanzo Est edito da Tunué nel 2018), rappresenta la quota italica. Il titolo di questo esperimento cine-sociale prende il nome dal fisico Lev Davidovič Landau perché nell’idea iniziale Khrzhanovskiy voleva semplicemente (?) fare un biopic su di lui, ma il risultato che ne è conseguito parla di circa settecento ore complessive di girato tanto che sul sito ufficiale (link) si contano tredici film (ma sarà corretto definirli film?) che plausibilmente verranno pian piano resi disponibili. Facendo un passo indietro, il primo contatto tra DAU ed il resto del mondo avviene, dopo numerosi annunci e altrettante smentite, a Parigi il 24 gennaio 2019 con una mega video-installazione che coinvolge il Centro Pompidou insieme a due teatri parigini, qui Khrzhanovskiy proietta a ciclo continuo il suo ciclopico blob in un diorama sovietico che a sua volta rimanda a quello dell’Istituto, un articolo apparso sul Sole 24 ore ne parla come di un “flop colossale”. Un anno dopo le prime due parti di DAU vengono presentate a Berlino ’20. Qualunque cosa sia DAU, se un film, un’opera d’arte contemporanea o una mastodontica baggianata, sarà comunque una pietra angolare con cui si dovrà fare i conti, probabilmente la sfida cinefila più esaltante degli anni venti.
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DAU. NATASHA

Il primo (tassello?, episodio?), anzi: la prima via d’accesso che ci permette di perforare il sistema-DAU è DAU.Natasha (2020), sul perché Khrzhanovskiy (coadiuvato dalla collega Jekaterina Oertel) abbia voluto iniziare proprio con questo segmento lo spiega – si fa per dire – così (link): “Penso che volessimo semplicemente iniziare con Natasha, ed è stata una decisione presa di comune accordo con il direttore della Berlinale Carlo Chatrian”, se si poteva pensare che il primo contatto fosse di tipo introduttivo, che ci potesse illustrare l’universo sovietico riprodotto, che fosse una panoramica del grande disegno generale, la realtà che dopo pochi minuti si spalanca è ben diversa perché è proprio la realtà che vediamo, a quanto si evince bisogna subito rapportarsi con un concetto di cinema dal taglio eminentemente realistico, provando ad andare indietro nel tempo per ripensare a 4 (2004), l’unica altra opera di Khrzhanovskiy vista, ricordo vagamente una tendenza verso il grottesco che in Natasha non c’è, al momento non ci è dato sapere se anche gli altri figli generati dal dio-DAU avranno medesima natura (mi piacerebbe di no, mi piacerebbe che ci fosse un’ampia eterogeneità formale), di sicuro questo titolo ingaggia una strenua lotta con la finzione: lo stralcio a cui assistiamo riguarda la storia di Natasha, una donna che insieme alla giovane Olga gestisce la mensa dell’Istituto, senza spiegazioni, senza coordinate, veniamo assorbiti da un susseguirsi di blocchi narrativi che esaltano un’idea di verità applicata alla scena, è chiaro che chi calca la suddetta scena recita, è chiaro che sono attori, ma nel congegno in cui sono inseriti e nelle modalità con cui ci vengono proposti traspare una naturalezza che allontana di brutta maniera tutti i mortali pantani appartenenti alla rappresentazione. Non parliamo di un cinema innovativo perché gente come Puiu e Mendoza ci ha costruito sopra una lunga carriera, e penso che non ci sia neanche da stupirsi se lo intendiamo come cinema in preda ad un raptus ostensivo che gode nel mostrarci tutto ciò che riesce senza celare nulla (neanche un rapporto sessuale), però è impossibile non pensarlo in un’ottica più ampia, quella che comprende l’interezza del progetto facendo sì, magari, che nei capitoli successivi rivedremo Natasha, che la sua vicenda possa svilupparsi, sotto altra foggia o la stessa, nell’animo di un cinema che è allora eccezionale perché multi-penetrabile ed espandibile fino ad un punto che ad oggi è sconosciuto, e questo è indubitabilmente un grande stimolo.

DAU.Natasha è vero che per sua costituzione esibisce se stesso, tuttavia non esibisce praticamente nulla dell’Istituto. La fortezza d’argilla di Khrzhanovskiy si intravede giusto oltre qualche vetro o nel finale quando la protagonista abbandona l’interrogatorio, poco male, avremo modo e tempo di vedere il resto. La performance, occludente e claustrofobica, si consuma principalmente in tre location: il ristorante, la camera da letto e l’ufficio/scannatoio di Azhippo, ma il vero “ambiente” che Khrzhanovskiy sa rendere forse ancora meglio dei set esterni è l’interiorità degli esseri umani, soprattutto, e non poteva essere diversamente, di Natasha. La costruzione del suo personaggio si dà per mezzo di connessioni, rapporti, legami che, per ossimoro, non necessitano di alcuna costruzione: Natasha è lì, dietro ad un bancone che prende gli ordini, o anche lì: stanca a fine turno che discetta sull’amore con la collega, e là: accovacciata in un corridoio che fuma e piange. Se c’è un aspetto che si può intuire dal primo morso di DAU è il lavoro effettuato da Khrzhanovskiy con i suoi interpreti e la collocazione che ha dato loro nel film, non personaggi ma persone, e la cosa pare funzionare anche, o forse proprio perché, non vi sono attori professionisti, se si osservano i crediti finali più o meno tutto il cast ha mantenuto il proprio nome anche nella finzione. Pur essendoci triliardi di pellicole che affrontano l’eterna diatriba vero/falso nella settima arte, la visuale che ci dà il regista russo non sa neanche un po’ di derivazione, o almeno non troppo.

Mancando completamente i riferimenti scientifici (c’è soltanto una breve parentesi con il fisico francese che si compiace dei risultati ottenuti con i colleghi russi), a Landau, a qualunque tipo di attività venga svolta nell’Istituto, il film si concentra sull’esistenza di Natasha, di colei su cui nulla sappiamo e che eppure ci sembra di conoscere da una vita, su un suo spiraglio sentimentale, sulla sua contraddittorietà squisitamente femminile, sulle sue debolezze e insicurezze, è un ritratto vivo che chi scrive ha apprezzato non poco anche perché, allargando la prospettiva, il suo profilo va ad affiancarsi fino alla drammatica collisione con quello di un Paese e con il clima di sospetto che lo imbeve. Se alcune sequenze possono apparire troppo diluite e forse nemmeno così indispensabili (penso alla conversazione con Olga che poi finisce per ubriacarsi), l’imbuto dell’interrogatorio che fa precipitare gli eventi è un bello strappo che inchioda alla sedia per tensione crescente e senso di impotenza davanti ad un’autorità vessatoria e autocratica, in parallelo Khrzhanovskiy sembra suggerirci quale sarà l’atmosfera che ci attende nelle future visioni perché questa è stata l’atmosfera che ha caratterizzato il passato, un sistema che in nome del controllo totalitario uccide il piccolo sogno del singolo, sarà interessante scoprire se rivedremo ancora Natasha e se il suo atteggiamento nei confronti di Azhippo è stato un bluff oppure no.

Il passo è stato compiuto, dopo anni di attesa (per vostra non richiesta informazione era dal 2010 o giù di lì che avevo segnato DAU in wishlist) siamo finalmente dentro, una cosa è certa: non se ne uscirà facilmente. A presto con DAU. Degeneration (2020).

2 commenti:

  1. «è impossibile non pensarlo in un’ottica più ampia, quella che comprende l’interezza del progetto»

    È quello che ho pensato dopo la visione del film che, onestamente (e comprensibilmente direi) è stato interessante fino ad un certo punto. Come fai notare non c'è di certo qualcosa di innovativo nelle modalità adottate da questo regista, nulla che non si sia già visto in altri contesti molto prima dell'uscita del primo DAU. Dunque quella "violenza" del film non appare nuova e non ha suscitato troppo il mio interesse. Ciò che conferisce un fascino esclusivo all'opera è certamente la consapevolezza di aver visto un piccolo tassello di qualcosa di molto più grande: non si può far a meno, insomma, di tenere sempre a mente questo "oltre lo schermo" del quale è fondamentale essere consapevoli per approcciarsi al progetto DAU. Inutile dire che continuerò con le visioni!

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  2. Eh sì, il singolo episodio Natasha non si ricorderà per essere un prodotto innovativo. Non ho ancora visto Degeneration (dovrei riuscirci questo weekend a meno di cataclismi) ma ho dato una sbirciata, mi sembra che l'approccio sia lo stesso che abbiamo incontrato qui. Se le cose staranno così anche per tutti gli altri tasselli potrebbe affacciarsi un po' di ripetizione. Però è presto per sparare sentenze.

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